Maria lo fissò dritto in faccia, i suoi occhi grigio ardesia puntati su quelli di lui. “Sì. Per quanto ne so, tra di voi le cose sono sempre andate bene. Kate ti amava moltissimo, e tu provavi lo stesso per lei.”
Reid trovò difficile sostenere il suo sguardo. “Già. Certo.” Scosse la testa. “Dio, sentimi. Sto parlando della mia defunta moglie a un appuntamento. Ti prego, non dirlo a mia figlia.”
“Ehi.” La donna gli strinse di nuovo le dita tra le proprie sopra al tavolo. “Va tutto bene, Kent. Lo capisco. Per te è una cosa nuova. Neanche io sono un’esperta qui, quindi… ne verremo a capo insieme.”
Rimasero fermi, mano nella mano. Era una sensazione piacevole. No, era qualcosa di più, era giusto. Lui ridacchiò nervosamente, ma il suo sorriso si trasformò in una smorfia perplessa quando fu colpito da uno strano pensiero, cioè che Maria lo chiamava ancora Kent.
“Che c’è?” domandò la collega.
“No. Stavo solo pensando… Non so nemmeno se Maria Johansson è il tuo vero nome.”
La donna scrollò le spalle, senza sbilanciarsi. “Potrebbe esserlo.”
“Non è giusto,” protestò Reid. “Tu conosci il mio.”
“Non sto dicendo che non sia il mio vero nome.” Si stava divertendo a prenderlo in giro. “Mi puoi sempre chiamare agente Calendula, se preferisci.”
Reid scoppiò a ridere. Calendula era il suo nome in codice, come Zero per lui. Gli sembrava buffo, usare i nomi in codice quando si conoscevano personalmente, ma d’altra parte, la parola Zero sembrava incutere paura in molte persone che aveva incontrato.
“Quale era il nome in codice di Reidigger?” chiese piano poi. Era quasi doloroso da domandare. Alan Reidigger era stato il migliore amico di Kent Steele— no , pensò Reid, era il mio migliore amico —un uomo dalla fedeltà apparentemente incrollabile. L’unico problema era che non ricordava quasi nulla di lui. Ogni memoria di Reidigger era svanita insieme all’impianto che Alan aveva aiutato a inserire.
“Non te lo ricordi?” Maria fece un sorriso gentile, ripensandoci. “È stato Alan a darti il nome Zero, lo sapevi? E tu hai dato a lui il suo. Dio, erano anni che non ci pensavo. Eravamo ad Abu Dhabi, mi sembra, avevamo appena terminato un’operazione ed eravamo ubriachi in un qualche albergo snob. Ti definì ‘ Ground Zero ’, come il punto d’impatto di una bomba, perché avevi la tendenza a lasciarti dietro solo macerie. Poi divenne solo Zero, e il nome ti rimase attaccato. E tu lo chiamasti…”
Un telefono squillò, interrompendo la sua storia. Istintivamente Reid lanciò un’occhiata al proprio cellulare, appoggiato sul tavolo, aspettandosi di vedere il numero di casa sua o del telefono di Maya sullo schermo.
“Tranquillo,” disse Maria, “sono io. Lo ignorerò…” Guardò il proprio cellulare e corrugò le sopracciglia perplessa. “In realtà, è dal lavoro. Solo un secondo.” Rispose. “Sì? Mmh-mmh.” Il suo sguardo serio incontrò quello di Reid. Lo sostenne mentre la sue espressione si faceva sempre più accigliata. Qualsiasi cosa stessero dicendo dall’altro capo della linea non erano di certo buone notizie. “Ho capito. Okay. Grazie.” Riappese.
“Mi sembri turbata,” notò lui. “Lo so, lo so, non puoi parlare di lavoro e…”
“È scappato,” mormorò la donna. “L’assassino di Sion, quello in ospedale? Kent, è fuggito, meno di un’ora fa.”
“Rais?” esclamò Reid sbalordito. Subito un sudore gelido gli coprì la fronte. “Come?”
“Non ho nessun dettaglio,” rispose in fretta lei mentre rinfilava il cellulare nella borsetta. “Mi dispiace così tanto, Kent, ma devo andare.”
“Sì,” mormorò l’uomo. “Capisco.” Era come se fosse a centinaia di chilometri di distanza dal loro intimo tavolo nel piccolo ristorante. L’assassino che aveva lasciato per morto—non una volta ma due—era ancora vivo, ed era in libertà.
Maria si alzò, e prima di andarsene, si chinò e premette le labbra alle sue. “Presto ci rivedremo di nuovo, te lo prometto. Ma per adesso, il dovere mi chiama.”
“Ma certo,” replicò lui. “Vai e trovalo. E, Maria? Stai attenta. È pericoloso.”
“Lo sono anche io.” Gli fece l’occhiolino, e poi uscì rapidamente dal ristorante.
Reid rimase seduto da solo per un lungo momento. Quando la cameriera si avvicinò, non la sentì nemmeno parlare; le fece solo un vago cenno a indicare che stava bene così. Ma la realtà era che stava tutt’altro che bene. Non aveva nemmeno sentito un brivido nostalgico quando Maria lo aveva baciato. Tutto ciò che aveva provato era una stretta allo stomaco per l’ansia.
L’uomo convinto di essere destinato a uccidere Kent Steele era scappato.
Adrian Cheval era ancora sveglio nonostante l’ora tarda. Era seduto in cucina su uno sgabello, fissando immobile e con la vista annebbiata lo schermo del portatile davanti a lui, battendo freneticamente sulla tastiera.
Si fermò abbastanza a lungo da sentire Claudette che si avvicinava in silenzio e a piedi nudi sulle scale coperte dalla moquette. Il loro appartamento a Marsiglia era piccolo ma accogliente, all’estremità di una strada tranquilla a soli cinque minuti dal mare.
Un momento più tardi una figura minuta dai capelli color del fuoco apparve nel suo campo visivo. La donna gli mise le mani sulle spalle e gliele accarezzò su e giù, fino al petto, appoggiandogli la testa sulla schiena. “ Mon chéri ,” mormorò. “Amore mio. Non riesco a dormire.”
“Neanche io,” rispose piano lui in francese. “Ho troppe cosa da fare.”
Claudette gli mordicchiò gentilmente il lobo dell’orecchio. “Parlamene.”
Adrian indicò lo schermo, sul quale era in bella mostra la struttura ciclica a doppia elica del RNA del variola major, il virus comunemente noto come vaiolo. “Questo ceppo della Siberia è… incredibile. Non ho mai visto niente del genere. Secondo i miei calcoli, la sua virulenza dovrebbe essere sbalorditiva. Sono convinto che l’unica cosa che possa avergli impedito di eliminare l’umanità migliaia di anni fa sia stata l’era glaciale.”
“Un nuovo Diluvio universale.” Claudette emise un languido sospiro nel suo orecchio, “Quanto manca perché sia pronto?”
“Devo mutare il ceppo, mantenendo la stessa stabilità e potenza,” spiegò lui. “Non è un compito semplice, ma è necessario. Il WHO ha ottenuto dei campioni di questo stesso virus cinque mesi fa; senza dubbio stanno sviluppando un vaccino, se non lo hanno già fatto. Il nostro ceppo deve essere abbastanza unico perché il loro vaccino sia inefficace.” Quel processo era noto come mutagenesi letale, la manipolazione del RNA che avrebbe eseguito sui campioni che aveva ottenuto in Siberia per accrescere la sua virulenza e ridurre il periodo di incubazione. Grazie ai suoi calcoli, Adrian sospettava che il tasso di mortalità del virus del variola major mutato avrebbe potuto raggiungere il settantotto percento, quasi tre volte quella della varietà naturale del vaiolo che era stata distrutta dal World Health Organization nel 1980.
Dopo il suo ritorno dalla Siberia, Adrian aveva visitato per prima Stoccolma e aveva usato le generalità del defunto studente Renault per accedere all’università, dove si era accertato che i campioni rimanessero inattivi mentre lavorava su essi. Ma non poteva sfruttare troppo a lungo l’identità di qualcun altro, quindi aveva rubato l’equipaggiamento ed era tornato a Marsiglia. Aveva montato un laboratorio nello scantinato inutilizzato del negozio di un sarto a tre isolati dal loro appartamento; il gentile proprietario era convinto che Adrian fosse un genetista, che studiasse il DNA umano e niente altro, e lui teneva la porta chiusa con un lucchetto quando non era presente.
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