No, io ho bisogno di pregare.
Le porte dell’ascensore si aprirono sulla Sala del Tempio, illuminata a giorno.
Nonostante si sentisse ancora le gambe deboli e insicure, Katherine Solomon si precipitò a cercare suo fratello. Nell’enorme salone l’aria era fredda e odorava di incenso. La scena che le si presentò davanti agli occhi la immobilizzò di colpo.
Al centro della sala sontuosa, sopra un basso altare di pietra, giaceva un cadavere tatuato, sporco di sangue e trafitto da schegge di vetro. In alto, nel soffitto, una voragine si apriva sul cielo.
Mio Dio. Katherine distolse immediatamente lo sguardo e riprese a cercare Peter. Lo vide seduto all’altro lato della sala: stava parlando con Langdon e il direttore Sato, mentre un medico gli prestava le prime cure.
«Peter!» lo chiamò correndo verso di lui. «Peter!»
Suo fratello alzò gli occhi e l’espressione del viso si distese, sollevata. Scattò subito in piedi per andarle incontro. Indossava una semplice camicia bianca e un paio di pantaloni scuri, capi che probabilmente qualcuno era andato a prendere nel suo ufficio al piano di sotto. Il braccio destro era infilato in una benda triangolare e l’abbraccio tra i due fratelli risultò un po’ goffo. Katherine quasi non se ne accorse. Una sensazione familiare di sicurezza e conforto l’avvolse in un guscio protettivo, come accadeva sempre, fin dall’infanzia, quando suo fratello maggiore la stringeva.
Rimasero lì abbracciati in silenzio.
Poi Katherine mormorò: «Stai bene? Cioè… bene sul serio?». Si staccò dal fratello, guardò la benda e poi la fasciatura dove un tempo c’era stata la mano destra. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Mi dispiace.»
Peter alzò le spalle, come se la cosa non avesse importanza. «È solo carne mortale. Il corpo non dura per sempre. La cosa importante è che tu stia bene.»
La semplice risposta di Peter riempì Katherine di un’emozione profonda, ricordandole tutti i motivi per cui voleva così bene a suo fratello. Gli accarezzò la testa, avvertendo i legami indissolubili della famiglia… il sangue comune che scorreva nelle loro vene.
Katherine, però, non poteva ignorare la tragica presenza di un terzo Solomon in quella sala. Il cadavere sull’altare attirò di nuovo la sua attenzione e lei rabbrividì cercando di non pensare alle foto che aveva visto.
Distolse lo sguardo e incontrò quello di Robert Langdon. Lesse compassione in quegli occhi, profonda e sensibile, quasi che lui avesse capito perfettamente cosa stava pensando. Peter sa. Katherine si sentì sopraffare da emozioni violente: sollievo, pietà, disperazione. Sentì anche che il corpo di suo fratello cominciava a tremare come quello di un bambino. Era qualcosa a cui non aveva mai assistito in vita sua.
«Lasciati andare» sussurrò. «Non c’è niente di male. Sfogati.»
Il tremito di Peter si fece più accentuato.
Katherine lo abbracciò di nuovo e gli accarezzò la nuca. «Peter, sei sempre stato tu il più forte… c’eri sempre quando mi trovavo in difficoltà. Questa volta, invece, sei tu ad avere bisogno di me. Va tutto bene. Io sono qui.»
Katherine appoggiò delicatamente la testa di suo fratello sulla propria spalla… e il grande Peter Solomon scoppiò a piangere tra le sue braccia.
Il direttore Sato si allontanò per rispondere a una telefonata.
Era Nola Kaye. E le sue notizie, una volta tanto, erano buone.
«Ancora nessun segnale di diffusione, capo.» La giovane sembrava ottimista. «Sono convinta che ormai avremmo visto qualcosa. Sembra proprio che lei sia riuscita a contenere i danni.»
Grazie a te, Nola, pensò Sato abbassando gli occhi sul laptop che Langdon aveva visto completare la trasmissione. Ci è mancato un pelo.
Dietro suggerimento di Nola, l’agente che aveva perquisito l’abitazione a Kalorama Heights aveva controllato anche i bidoni dei rifiuti e aveva trovato l’imballo di un modem cellulare, acquistato di recente. Avendo in mano l’esatto numero di modello, Nola era riuscita a effettuare una ricerca sulle celle per individuare il più probabile nodo d’accesso del laptop: un piccolo trasmettitore all’angolo tra Sixteenth Street e Corcoran Street, a tre isolati dalla House of the Temple.
Nola aveva immediatamente trasmesso l’informazione a Sato, a bordo dell’elicottero. Durante l’avvicinamento alla House of the Tempie, il pilota aveva effettuato un passaggio a bassa quota e colpito il nodo di instradamento con una scarica di radiazioni elettromagnetiche, mettendolo fuori combattimento solo qualche secondo prima che il laptop completasse il trasferimento del file.
«Hai fatto un lavoro splendido questa sera» disse Sato. «Adesso vai a dormire. Te lo sei meritato.»
«Grazie, direttore.» disse Nola, con una nota di esitazione nella voce.
«C’è dell’altro?»
Nola rimase in silenzio per qualche istante, incerta se parlare o no. «Niente che non possa aspettare fino a domattina, capo. Buonanotte.»
Nel silenzio di un elegante bagno al pianterreno della House of the Tempie, Robert Langdon si guardava allo specchio mentre il lavandino si riempiva di acqua calda. Perfino in quella luce soffusa aveva un aspetto… completamente sfinito.
Sulla spalla aveva di nuovo la sua borsa, molto più leggera ora, dato che conteneva soltanto qualche effetto personale e gli appunti per la conferenza, ormai stropicciati. Gli venne da sorridere suo malgrado. La visita a Washington per tenere un discorso si era rivelata più estenuante di quanto avesse previsto.
In ogni caso, aveva molto di cui essere grato.
Peter è vivo.
E il video è stato bloccato.
Si spruzzò l’acqua calda sul viso e si sentì tornare lentamente alla vita. Tutto era ancora confuso, ma l’adrenalina nel corpo stava finalmente dissolvendosi… e lui si sentiva di nuovo se stesso. Dopo essersi asciugato le mani, guardò l’orologio di Topolino.
Mio Dio, com’è tardi.
Uscì dal bagno e si avviò lungo la parete curva della Galleria d’Onore, un corridoio decorato da archi aggraziati, al centro dei quali c’erano i ritratti dei grandi massoni: presidenti degli Stati Uniti, filantropi, luminari e altri americani influenti. Si fermò davanti al ritratto a olio di Harry S. Truman e cercò di immaginarsi quell’uomo che si sottoponeva alle cerimonie, ai rituali e agli studi richiesti per diventare massone.
C’è un mondo nascosto sotto quello che ciascuno di noi vede. Un mondo per tutti noi.
«Sei scappato» lo rimproverò una voce in fondo al corridoio.
Langdon si voltò.
Era Katherine. Quella sera aveva attraversato l’inferno eppure, d’improvviso, sembrava radiosa, addirittura ringiovanita.
Langdon le rivolse un sorriso stanco. «Come sta Peter?»
Katherine lo raggiunse e lo abbracciò con calore. «Come potrò mai ringraziarti?»
Langdon rise. «Tu sai che io non ho fatto niente, giusto?»
Katherine lo tenne stretto a lungo. «Peter si riprenderà…» Si scostò e fissò Langdon negli occhi. «Mi ha appena detto una cosa incredibile… una cosa meravigliosa.» La voce le tremava per l’impazienza. «Devo andare a vedere con i miei occhi. Sarò di ritorno fra poco.»
«Cosa? Dove vai?»
«Non ci metterò molto. Peter vuole parlarti subito… da solo. Ti aspetta in biblioteca.»
«Ti ha detto perché?»
Katherine rise e scosse la testa. «Conosci Peter e tutti i suoi segreti.»
«Ma…»
«Ci vediamo tra un po’.» E sparì.
Langdon sospirò. Gli sembrava di avere appreso già abbastanza segreti per quella sera. Naturalmente c’erano ancora domande irrisolte — fra cui la piramide massonica e la Parola perduta — ma intuiva che le risposte, sempre che esistessero, non erano per lui. Non per un profano come me.
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