«Sì. Adesso è un'artista. Si siede in quell'angolo del locale coi suoi colori, seria come non mai, senza dire una parola per interi pomeriggi.»
Improvvisamente il cane si alzò, ringhiando. Jack si girò in tempo per vedere la porta chiudersi e l'ombra di un uomo arretrare dietro il vetro smerigliato.
«Entra, tesoro, è aperto», gridò Betty, gettandosi il panno sulla spalla e uscendo da dietro il bancone. Aprì la porta e rimase immobile per un attimo, mordicchiandosi le unghie e fissando la strada, prima di rinunciare e richiuderla. «Uno dei soliti. Deve averla vista ed essersi convinto che è un giornalista.» Prese il bicchiere, pulì il bancone e lo posò su una salvietta nuova. «Oppure sapeva che lei è un poliziotto.»
Il pastore si sedette vicino alla stufa e si grattò l'orecchio con la zampa posteriore grigia, gli occhi socchiusi dal piacere.
Quando Jack uscì, le strade erano deserte. I marciapiedi si erano asciugati, ma gli alberi sgocciolavano ancora e i lombrichi strisciavano tra le crepe del selciato. All'improvviso si accorse di un'ombra sul marciapiede che lo seguiva allo stesso passo e del lieve cigolio degli ingranaggi di una bici. Si voltò.
«Salve, detective!»
Rebecca fermò la bicicletta e posò una lunga gamba sul cordolo, per mantenersi in equilibrio. Indossava un paio di pantaloncini marroni, una felpa larga color beige e aveva i capelli raccolti a coda di cavallo. Alla ruota posteriore era legata, con cinghie di canapa, una cartella di cuoio.
Jack infilò le mani in tasca. «È una coincidenza?»
«Non esattamente.» Il lillà sotto cui si trovavano le gocciolava sulla felpa, facendo sbocciare alcune macchioline nere. «Ho continuato a venire al pub, sa, chiedendomi se… e l'ho vista uscire.»
«Capisco», rispose lui, intuendo che aveva qualcosa da dirgli. «Si è ricordata qualcosa?»
«Be', sì.» Torse la bocca, come se intendesse scusarsi. «Ma probabilmente non è nulla. Probabilmente per lei è una perdita di tempo.» Le sue unghie bianche e forti armeggiavano con le cinghie di canapa. Jack si era quasi scordato quanto fosse bella.
«Niente è mai niente.»
«D'accordo…» Becky parlava con circospezione, quasi si aspettasse di essere derisa. «Mi sono ricordata di un particolare che riguarda Petra.»
«Quale?»
«A volte, quando mi addormento… Ha presente quando si sta per sprofondare nel sonno e ritornano tutti i sogni della notte precedente?»
«Sì.» Jack lo conosceva fin troppo bene. Era il momento in cui spesso incontrava Ewan e Penderecki.
«Sono certa che non è importante, ma la notte scorsa, quando ormai ero mezza addormentata, mi è venuta in mente Petra che mi diceva di essere allergica al trucco. Non lo usava mai. Lo può vedere dai miei quadri. Era sempre pallida.» Il sole sbucò dalla coltre di nubi e proiettò l'ombra netta delle sue palpebre sulle iridi color verde oro. «In quella foto, nella sua valigetta, lei sembrava… una bambola. Avevo già visto gente morta, e aveva un'aria molto più reale di lei.»
«Mi spiace che l'abbia vista.»
«Non si preoccupi.»
«Rebecca?»
«Sì?» La ragazza chinò il capo e lo guardò. Una goccia di pioggia cadde dall'albero sulla sua guancia. «Che cosa c'è?»
«Perché non mi ha detto di Gemini?»
«Che gli è successo?»
«Quel giorno è uscito con Shellene. Perché non me l'ha detto?»
La giovane incrociò le braccia sotto i piccoli seni e si guardò la punta dei piedi. «Perché crede che non gliel'abbia detto?»
«Non ne ho idea.»
«Non faccia l'ingenuo. Lui spaccia droga, la vende a Joni, ecco perché.»
«Oh.» Jack scosse il capo, deluso. «Lei sa, Rebecca, sa quant'è grave la situazione, vero?»
«Certo che lo so. Non capisce che non penso ad altro?» E, mordendosi il labbro, aggiunse: «Gemini non c'entra assolutamente».
«Già, già», borbottò lui, sfregandosi la fronte. «Sono convinto che lei abbia ragione. Ma il problema è che sono l'unico a pensarlo. Tutti quelli che contano sono persuasi che Gemini sia il bersaglio giusto. Lui è nei guai, Rebecca, in guai maledettamente seri.»
«Non è stato lui. Non so come possiate pensare…»
«Io non lo penso! Gliel'ho appena detto: sono convinto che non sia stato lui.»
«Be'…» Lei voltò la bici nella direzione opposta, improvvisamente calma. «Non c'è bisogno di prendersela.»
«Rebecca… ascolti…» incominciò Jack, ma poi s'interruppe, sentendosi improvvisamente stupido. «Mi spiace. Io… ho solo bisogno di un po' d'aiuto. Ho bisogno di qualcuno che sia franco con me, che una volta tanto mi si lasci in pace.»
«Oh, per amor del cielo», mormorò lei. «Abbiamo tutti bisogno di essere lasciati in pace. E lei è pagato per risolvere i problemi.»
«Rebecca…»
Ma lei non lo ascoltava più. Pedalando rapidamente, se ne andò, mentre la felpa le scivolava su una spalla abbronzata, e Jack, infuriato e confuso, rimaneva a fissare il punto in cui la città aveva inghiottito quella ragazza.
Non essendo riuscita a perdere i quaranta chili indicati dai medici, nel 1985 Lucilla ebbe un secondo infarto miocardico, che causò una serie di aritmie incontrollabili e che, nell'arco di mezz'ora, le risultò fatale. Dopo il funerale, Henrick tornò a Greenwich con Toby e i due andarono a passeggiare nel parco.
Henrick si fermò all'ombra della Figura in piedi di Henry Moore. Si voltò verso il figlio e iniziò pacatamente a raccontargli, col suo marcato accento del Gelderland, la storia che aveva tenuto per sé per tanto tempo. Lei – Lucilla – era un'infermiera e lui l'aveva vista per l'ultima volta il 20 settembre 1944, a Ginkel Heath. Qualche tempo dopo gli avevano detto che era morta nel caos della battaglia di Arnhem, insieme coi membri della South Stafford Brigade che stava assistendo. E lui aveva continuato a credere a quella storia fino a trentacinque anni prima, quando lei era ricomparsa: era rimasta da poco vedova di un ricco chirurgo belga e si era stabilita a Sulawesi, dove lavorava in un orfanotrofio.
Toby guardava oltre il padre mentre questi parlava, verso la valle, dove i colonnati rosa pallido della residenza della regina brillavano come l'interno di una conchiglia. A poco a poco si fece strada nella sua mente l'idea che, per tutta la durata del suo matrimonio, il padre non aveva fatto che contare il tempo. Un mese dopo quella conversazione, Henrick vendette la proprietà nel Surrey, diede altri due milioni di sterline al figlio e si trasferì in Indonesia.
Col padre all'estero e la nuova scorta di denaro, Toby uscì sempre più dai binari della normalità: si recava di rado agli uffici di Sevenoaks (le uniche occasioni in cui indossava un vestito erano ormai le riunioni del comitato al St. Dunstan's), non si radeva quasi più e si vestiva sempre come se fosse permanentemente in vacanza: abiti di lino, camicie costose con le maniche arrotolate, espadrillas o scarpe di vitello, portate senza calzini. L'oppio e, in seguito, la cocaina e l'eroina gli avevano reso un buon servizio: avevano imbrigliato i suoi istinti peggiori, l'avevano frenato e placato, senza procurargli, almeno in apparenza, nessun danno fisico. Toby stava attento a non tenere grandi quantità di droga a Croom's Hill, e usava l'appartamentino isolato di Lewisham come base sicura. In effetti, nessuno dei suoi contatti conosceva l'indirizzo dell'appartamento, e lui poteva recarsi lì e rifornirsi un po' alla volta.
Per più di dieci anni mantenne un precario controllo della sua vita.
Verso la fine degli anni '90, tuttavia, le feste avevano assunto un'atmosfera diversa, nuova, disinvolta. Insieme coi bicchieri ghiacciati di Cristal e Stolichnaya, veniva servita cocaina dentro ciotole giapponesi ornate di disegni stilizzati. Le ragazze conosciute nei club di Mayfair stavano appoggiate alle pareti, fumando Saint Moritz e sistemandosi di tanto in tanto le minigonne. Harteveld, inoltre, faceva i suoi acquisti più vicino a casa, ricorrendo a una rete di contatti discreti che lo conducevano ai fornitori. Alcuni dei suoi conoscenti continuarono a frequentarlo, ma vennero ben presto schiacciati dai nuovi ospiti: le ragazze e il loro codazzo.
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