Dopo, era stata la casa sull'albero a ferire più di qualsiasi altra cosa la madre. Jack la rivedeva, mentre un pensiero o un ricordo la bloccava a metà, durante la pulizia del forno o il lavaggio dei piatti, inducendola a uscire risolutamente in giardino, dove rimaneva in piedi, a fissare l'albero, con la schiuma che, dai guanti rosa di gomma, gocciolava sul terreno.
E poi lo scoppio d'ira, disperato, quasi isterico, rivolto al marito: «Spiegami quella casa sull'albero, Frank; se è ancora lì, perché non c'è anche lui? Spiegamelo, Frank. Dimmelo! »
Il padre di Jack si tappava le orecchie e sprofondava nella poltrona, mentre le pagine sportive s'incurvavano sulle sue ginocchia. Era incapace di tollerare l'angoscia della moglie, finché un giorno non afferrò un martello e uscì nel fango e nella pioggia con le pantofole a quadri ai piedi.
Jack era sgattaiolato in camera e, tremante, si era messo in piedi sul letto, in modo da poter raggiungere la finestra e vedere il legno che si spaccava, le assi che cadevano al suolo, gli schizzi di fango sulle calze della madre che singhiozzava sul prato devastato.
Poi, tra i rami degli alberi, dall'altra parte della trincea della ferrovia, vide qualcun altro.
Ivan Penderecki. Pallido, le braccia robuste appoggiate al recinto marcescente sul retro. Vide la pioggia grigia e il vago sorriso sul suo volto.
Penderecki rimase lì per circa venti minuti, la casa alle sue spalle ormai ridotta a una silhouette contro lo sfondo di nubi scure. Poi, come se fosse più che soddisfatto, si girò e si allontanò in silenzio.
Per Jack, nove anni, il nasino premuto contro il vetro appannato, quella fu la prova dell'inconcepibile e dell'indicibile che andava cercando. La polizia aveva definito il fatto impossibile perché «… abbiamo ispezionato ogni casa della zona, signora Caffery; amplieremo le ricerche lungo la trincea della ferrovia, oltre il ponte di New Cross…»
Jack sapeva, nel modo essenziale, istintivo con cui un bambino conosce cose che non gli sono mai state dette, che Penderecki avrebbe potuto indicare alla polizia il punto esatto in cui si trovava Ewan.
I Caffery rinunciarono a lottare quando Jack compì ventun anni. Tornarono a Liverpool, vendendogli la casa, in cambio, lui lo sapeva, di non dover più rivedere la sua faccia. Jack, l'antagonista, il difficile, quello che non obbediva, che non stava buono, che non sedeva tranquillo. Quello che avrebbero preferito perdere. Non lo dissero mai, ma lui lo leggeva sul volto della madre quando la sorprendeva a osservargli il pollice. L'ecchimosi nerastra si era rifiutata di scomparire, prova, agli occhi della madre, dell'intenzione del suo secondo figlio di ricordarle per sempre quel giorno. La scomparsa di Ewan aveva fatto ben più che sminuire Jack di fronte alla madre. Jack sapeva che lei aspettava ancora, in qualche parte della tentacolare periferia di Liverpool… che cosa? Che trovasse Ewan? Che morisse? Non sapeva che cosa volesse, quale tipo di compensazione desiderasse da lui, il figlio scartato. Ogni tanto, nonostante Veronica e le donne che l'avevano preceduta, si ritrovava quasi paralizzato dallo smarrimento e dalla solitudine.
Così impiegò tutta la sua energia per fare rapidamente carriera nella Met. Il nome di Penderecki fu il primo che inserì nel computer della polizia PC2. E allora scoprì la verità.
John (Ivan) Penderecki, arrestato per pedofilia, aveva scontato due condanne negli anni '60, prima di andare a vivere nelle stesse, oscure strade londinesi in cui abitavano Jack ed Ewan Caffery.
Sugli scaffali dello studio – che però era sempre rimasto «la camera di Ewan» -, allineati e contrassegnati da colori diversi, si trovavano dodici raccoglitori, tutti pieni di ritagli, stecche di John Player avvolte da pellicola trasparente, scatole sbiadite contenenti graffette per fogli di carta, un chiodo arrugginito, un frammento di una bolletta del gas bruciata… Ordinarie testimonianze della vita di Penderecki raccolte da Jack, piccolo detective vittima di un'ossessione, in più di ventisei anni. Ora però aveva deciso di affidare il contenuto di quei raccoglitori alla memoria digitale.
S'infilò gli occhiali e aprì il database.
«Di nuovo lì?»
Jack iniziò a lavorare. Veronica stava sulla soglia, le braccia conserte, la testa inclinata di lato. Sorridendo, disse: «Ti stavo osservando».
«Vedo», replicò lui, togliendosi gli occhiali. «Sei entrata.»
«Volevo farti una sorpresa.»
«Hai fatto gli esami?»
«No.»
«È lunedì. Perché no?»
«Sono stata tutto il giorno in ufficio.»
«Tuo padre non ti avrebbe certo impedito di uscire!»
Accigliandosi, Veronica si massaggiò la gola. La giacca giallo zafferano era abbastanza scollata da rivelare il tatuaggio sullo sterno, memento della radioterapia effettuata nell'adolescenza. «Non c'è bisogno di arrabbiarsi.»
«Non sono arrabbiato, ma solo preoccupato. Perché non andiamo al pronto soccorso? Adesso?»
«Calmati. Domani chiamerò il dottor Cavendish. D'accordo?»
Lui si voltò verso lo schermo, mordendosi il labbro, cercando di concentrarsi sul lavoro, chiedendosi per l'ennesima volta perché mai le avesse dato le chiavi di casa. Lei lo osservava dalla soglia, sospirando e sistemandosi i capelli dietro le orecchie o passando le unghie sugli stipiti, mentre gli anelli e i braccialetti costosi – il miglior modo con cui un padre può dimostrare amore alla propria figlia – tintinnavano leggermente. Jack sapeva che desiderava essere guardata, e finse di non capire.
«Jack», sospirò infine, avvicinandosi alla sedia. Gli sollevò una ciocca di capelli neri e gli sfiorò la pelle col pollice. «Vorrei parlare con te del party. Mancano solo pochi giorni.» Poi strisciò verso la sedia e gli si appiccicò addosso, come olio, la bocca sulla guancia, le mani tra i capelli, la gamba sinistra sopra il bracciolo. I suoi capelli gli facevano il solletico sul collo. «Jackie? Hu-hu! Mi ascolti?» esclamò e gli premette le dita nella guancia, quelle dita che sapevano sempre di mentolo e di profumi costosi, e si dimenò, seduta sul suo inguine.
«Veronica…» Stava cominciando ad avere un'erezione.
«Che cosa?»
Jack si liberò. «Voglio restare qui, per un'ora.»
«Oddio», gemette lei e si alzò. «Sei malato, lo sai?»
«Probabilmente.»
«Comportamento ossessivo-compulsivo. Ci morirai, in questo posto, se non starai attento.»
«Ne abbiamo già parlato.»
«Siamo nel XXI secolo, Jack. Lo sai, si fanno passi in avanti, si migliora.» Davanti alla finestra, Veronica guardò fuori, in giardino. «Nella nostra famiglia siamo stati cresciuti con l'idea che è necessario allontanarci dalle nostre radici, migliorarci.»
«La tua famiglia è più ambiziosa di me.»
«Di quanto io non lo sia», lo corresse lei.
«Sì. Ci tiene più di me.»
«Di quanto io non ci tenga.»
«Santo cielo!»
«Che cosa?»
Jack posò gli occhiali e si sfregò gli occhi. Alcuni pesci tropicali sgargianti come caramelle attraversarono lo schermo. Trentaquattro anni, e non riusciva ancora a dire a quella donna che non l'amava. Dopo gli esami, dopo il party – vigliacco, Jack, vigliacco -, se gli esami fossero stati a posto, allora sarebbe stato facile. Allora gliel'avrebbe detto. Le avrebbe detto che era finita. E le avrebbe chiesto di restituirgli le chiavi.
«Che cosa c'è?» domandò lei. «Che cos'ho detto?»
«Niente», rispose lui, e riprese il lavoro.
Era un sole alto, un sole che causava il mal di testa e riduceva le ombre a bordi spessi intorno agli oggetti. Jack aveva tenuto i finestrini aperti mentre guidava, ma, nonostante ciò, Paul si era lamentato tanto della calura, aveva fatto una tale scena – passandosi le dita nel colletto e agitando la parte anteriore della camicia -, che alla fine Jack aveva capitolato: quando parcheggiarono, chiusero le giacche nel bagagliaio della Jaguar e si avviarono lungo la Greenwich South Street arrotolandosi le maniche della camicia.
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