«Probabilmente è da qualche parte a smaltire la sbornia in dolce compagnia.»
«E cosa avrebbe usato al posto dei quattrini? Sai che Malcolm non dà mai un soldo a quegli idioti e i tagliandi della Chiesa non valgono al di fuori di Owltown.»
«Allora pensi davvero a un delitto?» Augusta sogghignava.
Lo sceriffo classificava i suoi sogghigni in diverse categorie. Alcuni erano apertamente cattivi, altri solo pericolosi. Questo era malizioso.
«Se davvero gli ha sparato la moglie,» disse Augusta «allora devo delle scuse a quella donna. L'ho sottovalutata. Non è il coniglio che pensavo.» Scosse il capo. «Quel bastardo la picchiava. Ma sei sicuro che fosse qui ieri sera?»
«Oh sì. L'hanno visto in due entrare nel bosco col fucile. Ho trovato fori di pallottole in qualche albero.»
«Capisco dove vuoi andare a parare. Se si fosse sparato, questo è l'ultimo posto dove verrebbe a cercare aiuto.»
«Giusto.» Le indicò la scia rossa che fino a quel momento lei aveva abilmente ignorato, come se fosse abituata a vedere l'erba di casa sua sporca di sangue. «Forse non è il sangue di Fred, quello. Forse stavolta quell'idiota ha sparato a qualcuno e quel qualcuno, è venuto qui. È il sangue di Kathy, Augusta?»
Lei non abbassò lo sguardo. «Mi spiace deluderti. Non è che il sangue di uno dei polli di Henry Roth. E la colpa è di quella ladra della mia gatta. Rimborserò Henry per il pollo, quindi, sceriffo, la tua presenza qui è del tutto superflua.»
Jessop girò intorno alla casa. La porta fra le due scalinate era accostata.
«Stai pensando di arrestare la gatta?» Augusta gli stava alle spalle.
Lui si avviò verso l'ingresso.
«Tom Jessop, non metterai piede in casa mia senza esser stato invitato. Tuo padre era avvocato e so che ti ha insegnato a non fare una cosa del genere senza un mandato.»
Lui la ignorò ed entrò. Augusta lo seguì. «Mi hai fatto entrare in casa sei milioni di zanzare.» La sua voce era piena d'ira.
Lo sceriffo percorse il lungo atrio ed entrò in cucina. Ingaggiò una guerra di sguardi con la gatta appostata sul frigorifero. Quando si voltò, Augusta sgranò gli occhi nel vedere che impugnava la pistola.
Tornò a fissare la gatta. «Tu vuoi bene a questo animale, vero Augusta?» Prese la mira. «È il sangue di Kathy, quello sul prato? Voglio una risposta sincera.»
L'anziana donna alzò le braccia e gridò. Gli occhi della gatta si restrinsero e le orecchie si appiattirono all'indietro: dal frigorifero balzò sullo sceriffo affondandogli gli artigli nel petto e i denti nella mano. Jessop lasciò cadere la pistola. «Augusta, richiamala o le spezzo il collo!»
Augusta raccolse la pistola, aprì la zanzariera della finestra e scagliò l'arma lontano nell'erba. Allora la gatta lo lasciò andare. Balzò sul piano di ardesia e poi di nuovo sul frigorifero. Si accucciò, drizzando il pelo, pronta per un nuovo attacco.
Augusta gli indicò piccole gocce del suo sangue sul pavimento. «Ora non dimenticare la provenienza di quel sangue, Tom. Non vorrei che tu ti confondessi di nuovo.»
Era già fuori della cucina, quando la donna gli disse: «Dove stai andando così in fretta, Tom?».
«Torno subito» disse, con ironica gentilezza. «Non posso sparare a quella bestia senza il mio revolver, ti pare?» La porta gli sbatté alle spalle.
Trovò la pistola in mezzo all'erba alta, dove aveva parcheggiato l'automobile. Si stava chiedendo se le macchie sull'erba non potessero veramente essere sangue di pollo; oppure si trattava del sangue di Fred Laurie?
Dannazione!
Quando lo sceriffo si girò, si trovò di fronte una dirringer monocolpo a canna corta, con Augusta subito dietro, un dito sul grilletto. Lentamente rimise la sua pistola nella fondina. «Non lo faresti, Augusta.»
«Oh, Tom. Lo sai meglio di me» disse lei con dolcezza. «Certo che lo farei.» Ebbe un largo e diabolico sogghigno. «Vuoi davvero passare tutta la giornata in ospedale a farti tirar fuori la pallottola?»
Si convinse che lei avrebbe sparato a chiunque avesse costituito una minaccia per i suoi animali, o per la sua terra. Poteva aver sorpreso Fred a caccia nel bosco? Se era questo ciò che cercava di nascondere, non era sicuro di voler insistere con le domande prima che lei avesse il tempo di cancellare le prove. «Non sento il bisogno di far fuori un gatto oggi. Ma ho bisogno di trovare Kathy, e al più presto. Se mi ostacoli, vecchia mia, mi scorderò che ti conosco da una vita.»
«È per l'omicidio di Cass, vero?» Abbassò la pistola: il gioco era finito e lei non sorrideva più. «La vendetta è una malattia per te, Tom. Non è questo che sperava tuo padre. L'incarico di sceriffo nel distretto di St. Jude doveva essere il primo passo di una brillante carriera.»
«Senti chi parla: Augusta, la regina della vendetta, che ha fatto dell'odio la sua sola ragione di vita.»
«Oh, ma lo faccio così bene, con entusiasmo e stile. Per me la vendetta è un'arte. Per te, è solo un orribile lavoro. Ora vattene dalla mia proprietà.» Gli puntò la dirringer alle ginocchia. «Credi che riuscirai ad acciuffare Kathy anche con una gamba spappolata?»
Jessop salì in macchina. Mentre le ruote giravano a vuoto in un tratto melmoso, Augusta fece fuoco contro il bagagliaio.
Per Dio!
Nello specchietto retrovisore vide che stava ricaricando la pistola proprio mentre le ruote guadagnavano il terreno più solido. Invece di andare avanti, come avrebbe fatto chiunque avesse veramente a cuore la vita, lo sceriffo fece retromarcia fino ad affiancare Augusta, poi si sporse dal finestrino.
«Augusta,» disse, toccandosi la falda del cappello «non cambiare mai.»
La risata di lei lo seguì mentre la macchina si allontanava.
Prima ancora di avvicinarsi tanto da poter leggere l'incisione, Charles riconobbe il viso sulla nuova lapide del cimitero. La foto di Babe era in una cornice di legno da poco prezzo, fissata alla pietra. Sarebbe stata la fossa più piccola di tutto il cimitero: solo un buco nel terreno per l'urna. Nessun monumento per Babe Laurie, niente di grandioso.
«Allora, quando seppelliranno le ceneri?»
« Sarà cremato a fine settimana solo dopo la grande festa » disse Henry, guardando la rozza lapide opera di un artigiano da quattro soldi. « Pessimo lavoro, vero? Malcolm ha speso una fortuna per noleggiare una strabiliante bara di vetro per la veglia funebre, e quasi nulla per la lapide commemorativa. A Babe non sarebbe piaciuto affatto. Quando era vivo si credeva il re dell'universo. »
Charles annuì. Aveva incontrato un tipo così quando, ragazzino prodigio di appena undici anni, frequentava il secondo anno all'Università di Harvard. Durante una ricerca per il corso di scienze del comportamento, aveva studiato un paziente ricoverato in un ospedale locale. Il vecchio era distrutto dalla sifilide e urlava spesso: «Il re del mondo sono io!».
Il paziente pretendeva che il giovane Charles, tutte le volte che gli rivolgeva la parola, si inchinasse e usasse il titolo appropriato. Ma il regolamento dell'ospedale vietava al personale di assecondare i capricci dei malati. Verso la fine del suo studio, aveva spiegato al vecchio che, se rifiutava di chiamarlo "sire", era per il suo bene.
Per tutta risposta, quello aveva avuto una crisi di collera, seguita da convulsioni.
Il giorno dopo il ragazzo era tornato all'ospedale, portando un mazzo di fiori come segno di pace; fiori di tanti colori allegri, un'intera tavolozza di scuse per il vecchio. Ma la sua camera era vuota, il letto senza lenzuola. Il re del mondo era morto la sera prima. Il medico e l'inferii miera di turno avevano faticato parecchio nel tentativo di liberare Charles dal senso di colpa.
Poi, trattandolo come uno di loro, gli avevano spiegato il dramma infernale della malattia. La crisi di collera e le convulsioni, avevano detto, erano comportamenti tipici della dementia paralytica.
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