«La mattina in cui fui silurato andai nell’ex fienile a prendere i miei attrezzi e i miei effetti personali. Avevo sempre avuto un debole per quella Rolls. Era un’auto troppo bella, una macchina perfetta. Ad ogni modo, sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei vista. A meno che non me ne fossi comprata una.» Edwards rise.
Michelle invece era tesa come la corda di un arco. «Allora che cosa ha fatto?»
«Volevo solo darle un’ultima occhiata. Toglierle il telo di protezione e sedermici dentro, facendo finta che fosse mia.»
«Sì, sì, vada avanti» lo pungolò Michelle con impazienza. «Ma per quale motivo riteneva che Battle si sarebbe sbarazzato dell’auto?»
«Perché quando la stavo ricoprendo di nuovo con il telo notai che il paraurti anteriore sinistro era leggermente ammaccato e il vetro di uno dei fari era incrinato. Doveva essere successo la sera prima perché l’avevo lustrata e controllata da cima a fondo quello stesso pomeriggio, ed era perfetta. In effetti non è che fossero danni gravi o vistosi, ma stiamo parlando di un’automobile le cui riparazioni costano migliaia di dollari. E non esistono più pezzi di ricambio per un modello del genere. Era proprio un peccato. Immaginai che Battle avesse urtato qualcosa e fosse verde di rabbia. Il grande Bobby detestava a qualsiasi livello l’imperfezione. Era di una pignoleria maniacale. A volte veniva al garage a farmi una paternale solo perché aveva trovato una macchiolina di olio sul pavimento o una targa con uno schizzo di fango. Vedere la Rolls danneggiata in quel modo, per poco che fosse, probabilmente lo aveva fatto star male. Se non fosse riuscito a farla riparare a regola d’arte, in modo assolutamente perfetto, l’avrebbe di certo venduta. Quell’uomo era fatto così.»
«Ha mai detto a nessuno che la Rolls-Royce aveva subito dei danni?»
«No. Il proprietario dell’auto era lui; poteva farci quel che voleva.»
«Ricorda la data esatta in cui fu danneggiata?»
«Doveva esser successo la sera prima del mio licenziamento. Come le ho detto, l’avevo controllata tutta quello stesso pomeriggio ed era integra.»
«Questo l’ho capito. Ma si ricorda la data?»
Edwards restò in silenzio per qualche secondo. «Sono passati più di tre anni. In autunno o giù di lì. Per un po’ lavorai in zona per una certa società, nel North Carolina, finché non trovai quel posto nell’Ohio. Forse era settembre. No, penso che fosse ottobre, o magari novembre. Almeno credo.» Edwards non era troppo convinto.
«Non riesce a essere più preciso?»
«Stia a sentire, faccio fatica persino a ricordare dove sono stato la settimana scorsa, si figuri tre anni fa. Da allora mi sono trasferito diverse volte da una località all’altra in tutto il paese.»
«Non potrebbe verificare le buste paga o i cedolini dell’assicurazione sociale relativi al periodo in cui era a servizio dai Battle? O quelli dei periodi lavorativi in North Carolina o nell’Ohio? In questo modo si potrebbe arrivare a una data più precisa.»
«Signora, abito in un monolocale a West Hollywood. Non ho proprio lo spazio per roba del genere. Qui dentro riesco a malapena a riporre i vestiti.»
«Be’, se dovesse ricordarselo le dispiacerebbe richiamarmi?»
«Certamente, se è così importante.»
«È importantissimo.»
Michelle riagganciò e andò a sedersi alla sua scrivania. Un autunno di più di tre anni prima. Eppure, eppure… Se fosse stato davvero in autunno, sarebbero stati tre anni e mezzo, dato che adesso era primavera. A un tratto raddrizzò di scatto la schiena. Aspetta un momento , disse tra sé. È probabile che Sally Wainwright si ricordi la data esatta. Controllò l’orologio. Era troppo tardi per telefonare a Sally. L’avrebbero fatto l’indomani mattina. Al momento, però, poteva chiamare King e spiegargli che cosa aveva scoperto.
Compose il numero del cellulare del socio ma non ottenne risposta, così lasciò un messaggio sulla segreteria telefonica. King non aveva un telefono fisso sulla sua houseboat. Probabilmente stava dormendo. Michelle rimase un momento a fissare l’apparecchio sulla scrivania, rimuginando sul da farsi. Da un lato avrebbe voluto metterci una pietra sopra e andarsene a casa; dall’altro, più fissava il telefono e più provava una sensazione molto strana, che andava aumentando. Sean aveva il sonno leggero. Perché non aveva risposto? L’identificativo di chiamata sul suo cellulare gli avrebbe rivelato che era lei. A meno che non potesse rispondere al telefono! Arraffò in fretta e furia le chiavi e uscì di corsa, diretta al suo fuoristrada.
Sean King si agitava nel sonno con crescente disagio. Mentre la casa galleggiante rollava nel lieve sciabordio dell’acqua che ne lambiva lo scafo, un piccolo gemito gli sfuggì dalle labbra quando un fuoco gli si accese nel cervello. Ciononostante non si svegliò. Non era un incubo che lo stava aggredendo. Il suo corpo veniva lentamente prosciugato della capacità di assorbire ossigeno. Era stato lentamente e pacificamente condannato a morte.
I fari squarciarono il buio quando Michelle arrivò a bordo della Balena Bianca e salto giù. Scese velocemente la scaletta che conduceva alla houseboat.
«Sean?» chiamò, bussando alla porta del barcone. «Sean?» Michelle si guardò intorno. L’auto di King era parcheggiata lì vicino. Doveva per forza essere in casa. «Sean?»
Provò a girare la maniglia. La porta era chiusa a chiave. Fece il giro dello stretto passaggio tra il parapetto e la parte cabinata sopracoperta e spiò all’interno da una delle finestre laterali. Non riusciva a distinguere niente. Batté il pugno sull’oblò di quella che sapeva essere la camera da letto in cui King dormiva.
«Sean?» Ebbe la sensazione di udire un rumore. Tese l’orecchio e ascoltò attentamente. Era un gemito.
Tornò di corsa alla porta e provò a forzarla con una spallata, ma non cedette. Arretrò di un passo e si scagliò in avanti protendendo la gamba destra in un poderoso, tremendo calcio laterale da kick boxing e fracassò la porta intorno alla serratura e al battente, spalancandola di colpo. Si precipitò all’interno, con la pistola in pugno. Avvertì subito una strana oppressione ai polmoni, che aumentò la sua sensazione di panico. Le giunse all’orecchio un ronzio proveniente da chissà dove, e mentre avanzava nell’oscurità ebbe come la sensazione che qualcosa le si aggrappasse alle gambe. Inciampò e urtò diverse cose prima di riuscire a trovare l’interruttore, e il locale buio finalmente si illuminò.
«Sean? Sean?» urlò.
Lo raggiunse, tentò di svegliarlo scuotendolo forte, ma era privo di sensi. Lo trascinò fuori dal letto, attraverso la cabina, fuori dalla houseboat e all’aria aperta, nonostante faticasse a sua volta a respirare. King giaceva immobile sul ponte di coperta, con il volto di uno spaventoso colore rosso ciliegia. Asfissia da monossido di carbonio. Michelle si curvò su di lui, si scostò i lunghi capelli dal viso e cominciò a praticargli la respirazione bocca a bocca.
«Respira, Sean, respira, maledizione! Respira!»
Continuò a soffiare aria dentro di lui, facendo aderire le labbra alle sue, insufflandogli fino all’ultimo milligrammo di ossigeno che aveva nei polmoni finché non iniziò a sentirsi spossata e intontita dai capogiri. Ciononostante insistette.
«Respira. Dai, Sean, ti prego, ti prego! Respira per me, Sean, respira per me, piccolo, ti. prego. Non morirmi, Sean, ti scongiuro, non farmi questo. Non azzardarti a morirmi. Dài, dài, forza, bastardo, respira!»
Gli controllò il polso e poi gli alzò la maglietta e gli auscultò il cuore. Batteva ancora, seppur debolmente. Insistette di nuovo con la respirazione bocca a bocca, dopo di che sprecò alcuni secondi preziosi per chiamare il 911 con il cellulare. Poi proseguì. In caso di arresto cardiaco era pronta a rianimarlo con un energico massaggio al torace. Ma il cuore di King batteva ancora, e lei lo sentiva distintamente. Se solo i suoi polmoni avessero ricominciato a fare il loro dannato lavoro! Continuò regolarmente a soffiare aria in lui finché non credette di svenire lei stessa. Sembra morto. Oddio, se n’è andato. Ho fallito.
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