«Tua madre ci ha detto che Chip Bailey da allora è diventato un buon amico di famiglia.»
«Mi ha salvato la vita. Come si fa a non ricambiare una cosa simile?»
King lanciò un’occhiata fugace a Michelle. «Ti capisco benissimo.»
Udirono sopraggiungere un’auto, che inchiodò con una brusca frenata davanti alla porta di casa.
«Dev’essere Dorothea» disse Eddie. «Non le piace perdere tempo a parcheggiare.»
Michelle alzò lo sguardo fuori della finestra e vide una grossa Beemer nera. La donna che scese dalla vettura indossava una minigonna nera attillata, calze e scarpe nere; i suoi capelli ondulati erano perfettamente in tinta con quel colore. Si levò gli occhiali da sole, diede una rapida occhiata all’auto di King e poi si diresse verso la porta.
Entrò in soggiorno a grandi passi imperiosi in una vaga imitazione — nero pece — di Remmy Battle. O così parve a Michelle. E subito dopo si chiese se Dorothea non si fosse conformata a sua suocera. Elegantemente magra e sottile, con un fondoschiena rotondo e sodo, gambe slanciate e sexy, la donna possedeva un seno enorme e sproporzionato, indubbiamente opera di un professionista di chirurgia plastica. La bocca era un po’ troppo grande per il suo viso, e il rossetto troppo rosso per la sua carnagione pallida. Gli occhi erano di un verde opaco, ma dall’aria perspicace.
Si scambiarono saluti e presentazioni, dopo di che Dorothea estrasse una sigaretta e la accese mentre Eddie spiegava perché King e Michelle erano lì.
Dorothea disse: «Temo di non poterla aiutare, Sean», mantenendo l’attenzione su di lui e dando l’impressione di voler ignorare del tutto Michelle. «Ero fuori città quando è successo.»
«Giusto. Tutti erano altrove e nessuno tra quanti erano qui sembra aver notato nulla» commentò Michelle, punzecchiando la donna di proposito.
Gli occhi verde opaco si girarono lentamente verso di lei. «Spiacente se la famiglia e i domestici di casa non hanno fatto quadrare tutti i loro programmi in base ai passatempi criminosi di Junior Deaver» disse in un tono condiscendente e glaciale. Se solo avesse chiuso gli occhi, Michelle avrebbe potuto giurare di sentir parlare Remmy. Prima che avesse il tempo di ribattere, Dorothea tornò a rivolgere l’attenzione a King. «Penso che stiate dando la caccia alla volpe sbagliata qui.»
«Stiamo solo cercando di assicurarci che un innocente non finisca in galera ingiustamente.»
«Vi ripeto che state sprecando tempo» ribatté Dorothea in tono seccato.
King si alzò dal divano. «Be’, di sicuro non ne sprecherò altro del suo» disse in tono scherzoso.
Mentre se ne andavano, Michelle e King udirono alle loro spalle due voci alterate dall’ira.
Michelle lanciò un’occhiata al suo socio. «Scommetto che le festicciole private dei Battle sono proprio uno spasso.»
«Spero proprio di non scoprirlo mai di persona.»
«Allora adesso possiamo dire che la giornata è conclusa?» chiese Michelle.
«No, ti ho mentito. La prossima tappa è Lulu Oxley» rispose King.
King e Michelle si fermarono davanti a una grande roulotte che poggiava su blocchi di calcestruzzo grigi in fondo a un vialetto di ghiaia. I cavi elettrici e telefonici che correvano alla roulotte erano gli unici segni di collegamento con il mondo esterno. Pini stenti e rachitici cespugli di alloro selvatico formavano uno sfondo stanco alla modestissima abitazione di Junior Deaver e Lulu Oxley. Una vecchia e arrugginita Ford LTD, con il tettuccio di vinile crepato, un portacenere pieno di cicche, una bottiglia di Beefeater per tre quarti vuota sul sedile anteriore e due sudicie e ammaccate targhe del West Virginia, sostava davanti alla roulotte come un guardiano a buon mercato.
Mentre scendevano dalla Lexus, però, Michelle notò che cassette di fiori ornavano le finestre della roulotte, e altri vasi zeppi di multicolori fiori primaverili appena sbocciati campeggiavano sui gradini di legno che davano accesso alla porta d’ingresso. La roulotte in sé aveva un aspetto antiquato, ma l’esterno era pulito e in buone condizioni.
King diede un’occhiata al cielo.
«Che cosa cerchi?»
«Eventuali tornado. L’unica volta che mi capitò mi trovavo in una roulotte nel Kansas. In tutta la zona non si muoveva un filo d’erba, ma il tornado sollevò la roulotte e la depositò da qualche parte nel Missouri. Fortunatamente, ne ero uscito un attimo prima che scoppiasse il finimondo. Il tipo che ero andato a interrogare a proposito di un anello falso scelse invece di restarci attaccato. Lo ritrovarono in un campo di mais a dieci miglia di distanza.»
King non si diresse verso la porta d’ingresso; girò invece su un lato della roulotte. Proprio dietro l’abitazione, a una decina di metri sul retro e circondato su tre lati da alberi frondosi, sorgeva un grande capanno di legno. Era sprovvisto di porte, e all’interno videro che le pareti erano coperte di rastrelliere porta-attrezzi, mentre sul pavimento c’era un grosso compressore. Mentre si avvicinavano, un cane sporco e trascurato, con le costole in bell’evidenza, trotterellò fuori dal capanno, li vide e cominciò ad abbaiare mostrando i denti giallastri. Fortunatamente, l’animale sembrava legato con una catena a un palo solidamente piantato per terra.
«Okay, basta ficcanasare in giro» dichiarò King.
Mentre lui e Michelle salivano i gradini anteriori della roulotte, un donnone robusto comparve dietro la porta a zanzariera.
Aveva una chioma leonina, nera e striata di grigio. Il vestito viola che indossava sembrava un cartello pubblicitario da uomo-sandwich incollato sulla sua immensa stazza squadrata, e la sua faccia aveva due guance pienotte come dei krapfen, triplo mento, due labbra sottili e occhi molto ravvicinati. La pelle era pallida e praticamente senza una ruga. A parte il grigio nei capelli, sarebbe stato difficile indovinarne l’età precisa.
«La signora Oxley?» disse King tendendo la mano per salutarla. La donna non gliela strinse.
«Chi diavolo lo vuole sapere?»
«Io sono Sean King e questa è Michelle Maxwell. Siamo stati assunti da Harry Carrick per occuparci dell’indagine a difesa di suo marito.»
«Sarebbe una bella impresa, visto e considerato che mio marito è morto da dieci anni» fu la sorprendente risposta. «Forse cercate mia figlia Lulu. Io sono Priscilla.»
«Ci scusi, Priscilla» disse King, guardando Michelle di sottecchi.
«È andata a prenderlo. A prendere Junior, intendo.» Il donnone bevve un sorso di qualcosa da una tazza da caffè di Disney World che reggeva in mano.
«Pensavo che fosse in prigione» disse Michelle.
Lo sguardo della donna si spostò su di lei.
«Lo era. È a questo che servono le cauzioni, colombella. Sono venuta dal West Virginia per dare una mano a mia figlia con i bambini fino a quando Junior non si sarà tolto dai pasticci. Ammesso che ci riesca.» La gigantessa scosse il testone. «Rubare ai ricchi. Non c’è niente di più scemo, ma in fondo scemo è quello che Junior è stato per tutta la vita.»
«Sa per che ora dovrebbero essere di ritorno?» domandò King.
«Prima passavano a prendere i bambini a scuola, perciò dovrebbero essere qui a momenti.» Priscilla li osservò con diffidenza. «Allora, cosa ci fate qua, di preciso?»
«Siamo stati incaricati dall’avvocato di Junior di cercare le prove della sua innocenza» spiegò King.
«Be’, allora ne avete di strada da fare.»
«Quindi ritiene che sia colpevole?» disse Michelle, appoggiandosi alla ringhiera.
Priscilla la squadrò dall’alto in basso con malcelato disgusto. «Non è la prima volta che fa stronzate come questa.»
King intervenne. «Be’, forse stavolta Junior non c’entra.»
«Già, e forse io ho una taglia 42 e uno show in TV tutto mio.»
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