Jonathan Kellerman - Solo nella notte

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Solo nella notte: краткое содержание, описание и аннотация

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Una e un quarto di notte. Petra Connor, l’affascinante detective della squadra Omicidi di Los Angeles, è svegliata da una telefonata del distretto di polizia: strage al Paradiso Club. Quattro morti. Adolescenti che avevano partecipato a un concerto hip-hop. Perché quell’orrendo massacro? Oltre al gravoso incarico di decifrare il rebus, Petra deve fare da baby sitter al ventiduenne dottorando Isaac Gomez, impegnato in una ricerca statistica sui crimini avvenuti in città dal 1991 al 2001. Il suo Q.I. è superiore alla media, come la sua timidezza e la miseria in cui versa la sua famiglia. E se fosse proprio il giovane e impacciato cervellone a fornire la chiave dell’enigma? Incrociando i dati risultano infatti sei efferati delitti commessi negli ultimi sei anni, tutti subito dopo la mezzanotte. E tutti il 28 giugno. L’assassino sembra divertirsi un mondo a fracassare il cranio delle vittime osservandone colare la materia grigia. Quale disegno segue la follia? E quale legame con la carneficina del Paradiso?

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«Senti, solo pochi pezzi da poco. E ho la grana.»

«Quanta grana?»

Motor gli mostrò una banconota da venti e una da dieci. Spanky le guardò come se fossero sterco di cane.

«Dai, sai che non ti frego.»

Spanky sospirò e il petto gli si risucchiò all’indentro come le guance di una che fa un pompino. Nemmeno un pelo sul torace o sulle labbra, ma quella barba grigia che gli cresceva su fino agli occhi era più folta di quella di Babbo Natale.

«È un anticipo», insisté Motor.

«Sì, sicuro. Una cosa sia chiara, pero, niente pezzi nuovi. Se ti lascio prendere qualcosa, è solo da quelli di seconda mano.»

«Mi sta bene», ribatté Motor. «Vado a frugare.»

«Frugare? Pensi di poter frugare per trenta dollari?»

«Trenta d’anticipo, dai! La settimana prossima alla mia tizia le arriva l’assegno.» Balle, Sharia non avrebbe incassato niente fino alla fine del mese. «Appena incassato l’assegno, avrai i tuoi soldi. Te li porto io di persona.»

«Di persona?» Spanky sorrise e la barba trattenuta dall’anello dondolò come un sacco di fuffa. «Perché non me li accrediti via banca, Buell? Tutti adesso accreditano via banca. Hai mai fatto accrediti via banca, Buell?»

«Sì, certo.» Balle.

«Allora avrai il tuo conto in banca per farmi l’accredito no? Noi ce l’abbiamo. Abbiamo anche un computer.» Spanky batté la mano sul registratore di cassa. «Oggi tutto è computerizzato, Buell. Nel retro abbiamo anche un altro computer per ordinare i pezzi. E anche l’E-mail. Sai che cos’è l’E-mail, Buell?»

Motor non rispose. Che coglione. Si accorse in quel momento che Spanky aveva un’aria da… ebreo. Di un rabbino. Schiaffagli un cappello in testa, rispediscilo a Israele.

«E-mail, Buell? Noi usiamo il computer per mandare messaggi, telefonate, non costa niente. Ti guardi anche delle belle foto porno sul computer, Buell. Casalinghe, anal, oral, di tutto. Oppure puoi usare l’E-mail per scrivere ‘vaffanculo’ a qualche coglione. Tutto quello che vuoi. Quello che ti sto dicendo, Buell, è che qua attorno c’è un mondo nuovo, bisogna stare dietro ai tempi. Una volta uno poteva starsene a culo comodo, rimediarsi una moto, vivere da libero. Oggi devi avere qualcosa di più che i soldi per la benzina.»

Spanky lo contemplò con un misto di commiserazione e disprezzo. Dove voleva andare a parare?

«Oggi occorre produrre qualcosa, Buell. Beni e servizi. Come per esempio fabbricare una moto o metterla a punto. Da me vengono dottori, avvocati, gente che ha già la Mercedes, ma va matta per le moto. Gente che produce. »

«Gli avvocati producono più merda di un orso con la diarrea», sentenziò Motor.

Spanky non rise. Nemmeno un sorriso. «Giusto, Buell. Per questo loro hanno da pagarmi per quello che comperano e tu stai cercando di rifilarmi trenta dollari.»

«Ehi, dico…»

«Già, già, vuoi andare a frugare nel mucchio dei pezzi usati, certo, ma questa è l’ultima volta. E prima fai un salto al Bell e mi prendi qualcosa da mangiare.» Spanky si grattò l’interno della narice sinistra. «Tre taco. Quelli soffici. E un burrito al manzo, guacamole extra, salsa extra. E un’enchilada al formaggio. E una coca jumbo. Tu mi offri il pranzo e forse io ti lascio frugare. Almeno avrai prodotto qualcosa. Niente beni, ma un servizio sì. È tutta questione di economia , Buell.»

Il Taco Bell era a tre isolati e a ogni passo i piedi gli facevano più male, tutto quel peso da trasportare, gli stivali logori a rendergliela più dura. La tela sudicia dei jeans gli aveva irritato la pelle delle cosce. Quando ci arrivò, sudava per lo sforzo. Quando il piccolo mangiafagioli gli chiese: «Sì, signore?» lo incenerì con un’occhiataccia e gli spense il sorriso sulle labbra. Poi ordinò quello che Spanky gli aveva chiesto.

Stava per andarsene quando lo vide. Era abbandonato su uno dei tavolini.

Un giornale di L.A. Lui non leggeva giornali, chi se ne fregava. Ma quello attirò la sua attenzione per via del disegno.

Cazzo se non somigliava al sorcetto di Sharia.

Andò a prenderlo. Gli ci volle parecchio per finire l’articolo e dovette leggerlo due volte per essere sicuro. Aveva sempre fatto fatica nella lettura, non tutte le parole avevano un senso, certe lettere erano alla rovescia. Il suo vecchio diceva che era un ritardato, e tu senti chi parla, testa di cazzo di un portinaio disoccupato, schiattato a quarantacinque anni per essersi fottuto il fegato. Non che la mamma scherzasse meno di lui in fatto di alzare il gomito, ma almeno lei non gli rompeva le palle. Scarsa a leggere pure sua madre.

Finalmente arrivò in fondo. Possibile che fosse vero? Testimone di un omicidio? A Hollywood?

Studiò il disegno. Sì, quello era proprio il muso del sorcio.

Doveva essere il sorcio. Se l’era filata… quando? Quattro mesi prima?

E i bambini scappavano sempre a Hollywood. Ci era finito anche lui, quando Fegato Spappolato lo aveva preso a calci in culo perché era stato bocciato per la terza volta. Così finalmente gli aveva detto, fottiti, io me ne vado.

Quella volta aveva preso il Greyhound, con i soldi che aveva rubato dai jeans di Fegato Spappolato. Aveva avuto paura quando ci era arrivato, il posto era enorme, ma aveva camminato per le strade impettito, tanto per far capire a tutti che non avrebbe mangiato merda da nessuno.

Già sviluppato, dimostrava più dell’età che aveva, aveva avuto pochi problemi per le vie di Hollywood, dove aveva spillato quattrini ai ragazzi più piccoli di lui, aveva scippato nonnine, aveva prelevato una nipponica dal parcheggio del Roosevelt Hotel , l’aveva smontata, ne aveva venduto i pezzi, si era procurato un vecchio HD Shovelnose da uno dei compagni che andavano a bere al Cave.

La più bella dueruote che avesse mai posseduto. E qualcuno gliel’aveva fregata da sotto il culo.

Dormiva in una casa abbandonata di… dov’era mai? Argyle. Sì, Argyle, un grande appartamento vuoto pieno di tossici, un posto che puzzava di vomito e merda e non ci aveva mai dormito bene, sempre con gli occhi aperti, caso mai qualcuno cercasse di fotterlo. La sua corporatura era un aiuto; lo era anche il fatto che pestava a sangue tutti quelli più piccoli che gli finivano tra i piedi. E quel negro che aveva accoltellato perché lo aveva guardato storto… Quella storia era girata, si era fatto una reputazione.

Il giubbotto nero di pelle che aveva comperato a un raduno di Van Nuys l’aveva introdotto meglio nel giro dei motociclisti del Cave. Uno di loro gli aveva venduto documenti contraffatti così poteva entrare anche lui a bere. Stava diventando culo e camicia con il gruppo, cominciava a pensare che sarebbe riuscito a entrare in qualche club, poi tutt’a un tratto avevano smesso di trattarlo da amico, non aveva mai capito bene perché.

Dunque sapeva bene che Hollywood era un posto dove si andava a finire quando si scappava di casa.

Anche il sorcio? Perché no? Quella caccola era troppo piccola per farsi rispettare, quindi probabilmente si faceva sbattere, lo prendeva in quel deretano smunto, probabilmente aveva l’AIDS.

Quattro mesi. Ogni tanto Sharia ci piangeva ancora e lui doveva gridarle di chiudere quei rubinetti del cazzo che aveva al posto degli occhi. Piangeva ma non faceva un fico secco per trovare il suo sorcio. Voleva dargli a intendere che ci teneva. Stupida troia. Una volta si era alzata a sedere nel letto in piena notte urlando non si capiva bene cosa dell’AIDS, e lui a scuoterla, a chiederle che cazzo le era saltato in mente. Lei lo aveva guardato e gli aveva detto, niente, cowboy. Ho fatto un brutto sogno.

Era ora di cambiare aria, prendersi una pollastra di quelle giuste.

Venticinque bigliettoni. Ecco la strada giusta.

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