Su, più in alto della spiaggia, c’è una strada piena di ristoranti e alberghi eleganti. Niente che possa servirmi. A nord c’è un piccolo parco con qualche anziano e qualche barbone e se continui a guardare dopo un po’ ti sembra che la strada scompaia. Tutti quegli alberi… troppo simili a so-bene-dove.
Così m’incammino a sud e l’ambiente comincia a sembrarmi un po’ più familiare, motel e condomini, balordi che potrebbero anche essere gli stessi del boulevard. Trovo mezza ciambella per la strada e mi sembra commestibile. Un isolato più avanti vedo sul marciapiede un resto di Twix, ma è troppo sciolto e fa troppo schifo e riesco a mangiarne solo un bocconcino.
Più avanti un cartello dice che sono a Venice. Case piccole, gente, un sacco di messicani. Prendo per una via. In fondo c’è di nuovo l’oceano e presto sono su questa promenade molto larga che si chiama Ocean Front Walk, come un marciapiede gigante, con l’oceano da una parte, negozi dall’altra, gente di tutti i tipi, straccioni, neri, splendide ragazze-bikini sugli schettini, con le guance del sedere che vengono fuori, i ragazzi che le lumano. Gente giovane, come studenti di università, gente vecchia seduta sulle panchine, ciclisti con tatuaggi, un sacco di cani grossi con l’aria cattiva. Ci sono dei tipi alla Arnold Schwarzenegger che fanno ginnastica in certe zone recintate, con il corpo tutto luccicante di unguenti così i muscoli sembrano pompelmi che cercano di scoppiare fuori della pelle.
I negozi sono soprattutto piccoli e vendono roba da poco. Fast food, gelatai, bibite fresche, occhiali da sole, souvenir, cartoline, T-shirt, costumi da bagno.
Cappelli che dicono CALIFORNIA! oppure MALIBU! oppure VENICE! Mi piacerebbe qualche vestito asciutto, ma c’è troppa gente per riuscire a prendere qualcosa.
Però potrebbe essere un buon posto dove fermarmi, vedere che cosa succede dopo. Decido di andare da un’estremità all’altra dell’Ocean Front, vedere un po’ come butta.
A metà strada vedo una palazzina grigia con una stella a sei punte sulla porta. Una stella ebraica, lo so dal mio libro di storia, al capitolo Il Medio Oriente: culla della civiltà.
Una chiesa ebraica. Com’è che le chiamano? Sinagoghe? Ci vado. Vicino alla porta c’è una scritta in ebraico con la traduzione. Sopra la porta dice: CONGREGAZIONE BETH TORAH.
Potrebbe essere un buon colpo. Gli ebrei hanno sempre denaro. Almeno così diceva Moron, la menava che erano tutti fottuti banchieri, succhiavano il sangue alla nazione, avevano ammazzato Gesù e adesso volevano anche i nostri soldi.
Come se lui ne avesse mai avuti.
Poi penso: perché dovrebbe aver avuto ragione? Aveva torto su tutto il resto. Eppure… che ci fa una chiesa in mezzo a tutti questi negozi se non perché piazzandosi qui c’è da ricavarci dei soldi?
Non è solo per via di Moron, anche mamma era d’accordo con lui, diceva, sai, cowboy, quelli hanno proprio il pallino per fare soldi, devono avercelo nel sangue.
«Quanto sei scema.» Lui rideva. «Non è il pallino, è che ci fregano. È il GOS, che cazzo! Sai che cos’è? Governo di Occupazione Sionista. Vogliono farci fuori. E non sono nemmeno umani. È stato il diavolo che si è scopato un serpente a scodellarli, lo sapevi? C’è un solo popolo eletto ed è la razza ariana.»
Quella sera ero seduto al tavolo della cucina a cercare di studiare la Guerra Civile. Ma poi mamma ha cominciato a raccontare una storia e l’ho ascoltata. Su non so quale famiglia di ebrei ricchi che avevano una grande coltivazione di fragole giù vicino a Oxnard. Lei e i suoi genitori andavano a cogliere le fragole quando era piccola. E quegli ebrei avevano una grande casa bianca a due piani e una Cadillac.
«Fottute sanguisughe», ha detto Moron.
«No, erano carini, gente a posto…» ha cominciato lei. Ma lui l’ha guardata e allora lei ha detto: «Certo che amavano i loro soldi. La moglie si vestiva sempre come se dovesse uscire a cena ed era solo la moglie di un fattore. E c’era quella grande casa, forse tre piani, un mazzo di antenne TV sul tetto, mentre noi si dormiva in queste baracche con la stufa a cherosene.»
«Bastardi.»
Anche se sono tutte bugie, certe volte c’è un po’ di verità anche nelle bugie. A me non occorrono migliaia di dollari ebrei, mi basta qualche spicciolo.
Un avviso di fianco alla porta della sinagoga dice che le preghiere sono il venerdì sera e che l’ora di accendere le candele è le 19.34. Vai a capire.
Non c’è nessuno che guarda. Provo la porta. Chiusa a chiave. Il posto dopo si chiama Cafe Eats , ed è chiuso anche quello.
C’è uno spazio tra la chiesa e il Cafe Eats. Passo dietro, dove c’è un vicolo, macchine parcheggiate, ma nessuno di passaggio. Due spazi vuoti dietro la sinagoga. Pregano il venerdì sera. Sarebbe domani.
Do un’occhiata alla porta sul retro. Legno comune, con un gingillo di legno inchiodato al telaio sul lato destro, anche quello con una stella ebraica. Sarà un portafortuna o che so io, forse per chiedere soldi a Dio.
Anche la porta sul retro è chiusa a chiave. Di fianco c’è una finestra, piccolina, troppo piccola perché ci passi un uomo, ma abbastanza grande per me. È coperta da una zanzariera, come alla casa dell’ananas. Anche questa viene via facile.
Non ho bisogno di rompere la finestra, è allentata. Quando la spingo, tintinna. Così spingo più forte e sento che cede, poi qualcosa molla all’improvviso e la finestrella si spalanca e io guardo da una parte e dall’altra nel vicolo.
Nessuno. Sono dentro.
Mi sto perfezionando.
La stanza in cui sono finito è un bagno, piccolo ma pulito, water, lavandino e uno specchio. Niente doccia. Lo specchio mi dice che non sono così terribile come pensavo, solo un po’ di graffi in faccia e qualche crosta biancastra intorno alle orecchie e alle labbra. Me le lavo via. Uso il water. Considerato che per poco annegavo, posso ritenermi soddisfatto dell’aspetto che ho.
Ringrazio Dio, nel caso sia stato davvero Lui. Mi lavo le mani.
E adesso andiamo a cercare un po’ di soldi ebrei.
Petra si svegliò confusa alle sei e mezzo, con la testa affollata di Ron Banks, Estrella Flores, Ramsey, il ragazzino con il libro dei presidenti. Indossò una vestaglia e recuperò il giornale. Era lì, pagina tre, al centro dell’articolo.
Il filo conduttore era la mancanza di sviluppi; l’implicito polizia brancolante nel buio. Il portavoce del dipartimento, Salmagundi, attento a minimizzare il ruolo del presunto testimone. Il ragazzino era «solo una delle diverse piste che stiamo valutando».
L’ultimo paragrafo le fermò il respiro in gola.
Venticinquemila dollari di ricompensa a chiunque avesse fornito informazioni sul bambino o altro che conducesse all’arresto di un indiziato. I soldi erano offerti dal dottor John Everett Boehlinger e sua moglie; tutte le chiamate dovevano essere inoltrate all’ufficio investigativo di Hollywood.
Il suo interno. Era esterrefatta. Le telefonate avrebbero dovuto essere passate a Schoelkopf, che gli venisse un colpo. In quel modo lei non avrebbe più potuto lavorare. Tutta la giornata a filtrare telefonate di mentecatti. Chissà se Stu aveva già visto l’articolo.
Normalmente lo avrebbe chiamato. Ma più niente era normale.
Infilò il primo indumento che le capitò tra le mani, prese il giornale e si precipitò alla stazione.
Sul suo tavolo c’erano già dieci messaggi: nove avvistamenti del bambino e un veggente di Fontana che sosteneva di sapere chi aveva ucciso Lisa. Quali altre meraviglie doveva attendersi per il pomeriggio? Stu non era ancora arrivato. Al diavolo anche lui. Anche Fournier era fuori.
Fece irruzione nell’ufficio di Schoelkopf agitando il giornale. Il capitano era seduto alla scrivania. Balzò in piedi e le puntò l’indice addosso: «Tieniti per te la tua piazzata. I genitori sono arrivati ieri e sono andati difilato dal vicecapo Lazara. Mi chiama alle dieci. Devo venire giù a riceverli. Il padre è evidentemente uno spaccacoglioni, abituato a far scattare la gente sull’attenti. Dio solo sa che cosa è capace di inventarmi».
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