Lei si ritrovò a ridere. «Sei stato bravissimo, Ron. Sì, godo di un sano appetito quando mi ricordo di sedermi da qualche parte a mangiare.»
Lui continuò a scuotere la testa, si pulì la bocca con il tovagliolo, lo ripiegò con cura e lo sistemò di fianco al piatto. «Tutte le volte che mi metto a farfugliare, ti prego di prenderlo come un complimento.»
«Fatto», promise lei. «Stai dicendo che apprezzare il cibo è un atteggiamento sano.»
«Ecco, è quello che intendevo. Ci sono tante ragazze oggi che hanno un’autentica fobia del cibo. Io ci penso perché ho delle figlie. La mia ex era fissata con questa storia che dovevano essere magre…» S’interruppe di nuovo. «Non molto galante continuare a tirarla in ballo.»
«Ehi, è stata una parte importante della tua vita. È normale.» Lasciando intendere che lo stesso aveva fatto lei con Nick. Ma così non era. Di lui non parlava con nessuno.
«Era», corresse lui. «Al passato.» Levò la mano e tagliò l’aria in verticale. «Dunque… come va l’inchiesta?»
«Non molto brillante.» Gliene parlò senza entrare nei particolari. Prendendolo in simpatia, ma senza scordare che non era un uomo del dipartimento.
«Brutta situazione», commentò lui. «Quando si mette così, con la pubblicità fra i piedi, non si riesce a lavorare a dovere.»
«A te è successo?»
«Ogni tanto.» Toccò il tovagliolo, guardò altrove. Anche diffidente?
«Ogni tanto?» ripeté Petra.
«Sai anche tu come va a noialtri poliziotti di campagna, a rincorrere i ladri di cavalli, a proteggere i pony express.»
«Ah», lo rintuzzò Petra. «Qualcosa di cui ho sentito?»
«Be’», rispose lui, «io e Hector abbiamo lavorato un po’ a quella storia della contea di Gen.»
Un caso clamoroso di tre anni prima. Uno psicopatico dissezionava infermiere all’ospedale di contea. Quattro vittime in tre mesi. Risultò che era un inserviente che aveva scontato una pena detentiva per violenza carnale. Era riuscito a farsi assumere dando un’identità falsa ed era stato assegnato proprio ai reparti di chirurgia. Prima che fosse preso, le infermiere avevano minacciato uno sciopero.
«Toccò a voi?»
«A me e Hector.»
«Posso dire che sono impressionata?»
«Credimi, non ci sono voluti colpi di genio», minimizzò lui. «Tutto indicava qualcuno dell’ospedale. È stato solo un lavoro di spulcio, controllare cartellini di presenza, eliminare tutti i negativi finché non fosse rimasto solo il positivo.»
Petra ricordava la frustrazione femminista, i tamtam della stampa… Ma all’inizio non c’era stata una task force? «Ci avete lavorato fin da subito?»
Lui arrossì di nuovo. «No, ci chiamarono dopo qualche mese.»
«Dunque siete i soccorsi.»
«Qualche volta», rispose lui. «E qualche volta vengono in soccorso a noi. Sai come va.»
Quello che sapeva lei era che quello del dissezionatore di Gen era stato un caso importante e che lui aveva partecipato alla squadra di soccorso. Segugio di razza. E lo sceriffo aveva scelto proprio lui per la visita di notifica a Ramsey?
Perché era così schivo in proposito? Modestia? O lo avevano mandato per carpirle qualche informazione?
«Nessuna idea su Ramsey?» gli domandò.
«Come ho detto a casa sua, mi ha fatto squillare un campanello, ma non sono dotato di molto orecchio.» Sorrise. «Io vado forte con i cartellini di presenza.»
Lei ricambiò il sorriso. Lui tamburellò sul tavolo. Si passò il dito dove non aveva più i baffi. La cameriera gli consegnò il conto e, malgrado le proteste di Petra, volle assolutamente pagare. «Ehi, se devi sopportarmi, meriti un sandwich.»
«Non ho dovuto sopportare niente», rispose lei meccanicamente.
Ron l’accompagnò alla macchina. La serata era tiepida. C’erano ancora pedoni in Fairfax e dall’altra parte della strada il giornalaio era affollato di spigolatori. Gli aromi gastronomici del Katz’s li seguirono fuori. Lui non camminò standole vicino, diede l’impressione di evitarlo volutamente.
«Allora», disse quando raggiunsero la Ford. «È stato molto bello. Io… c’è magari qualche posto dove vorresti andare? Se non sei troppo stanca, voglio dire. Magari a sentire della musica. Ti piace la musica?»
«Sono un po’ cotta, Ron.»
L’espressione avvilita che gli vide comparire in faccia le rivelò che la serata era personale, niente a che vedere con il caso, e provò rimorso per aver sospettato di lui.
«Certo, certo. Per forza.»
Le porse la mano e lei gliela strinse. «Grazie, Petra. È stato davvero molto piacevole.»
C’era mai stato altro uomo che l’avesse ringraziata solo per avergli dedicato del tempo? «Sono io che ringrazio te, Ron.»
Lui s’inclinò in avanti, come per baciarla, poi oscillò all’indietro, abbozzò una specie di saluto militaresco e si girò infilandosi le mani in tasca.
«Che musica ti piace?» chiese lei. Aveva in mente il country. Country tradizionale.
Lui si fermò, si girò di nuovo, si strinse nelle spalle. «Soprattutto rock. Roba vecchia, blues, Steve Miller, Doobie Brothers. È un genere che una volta suonavo in una band.»
«Davvero?» Petra soffocò una risatina. «Avevi i capelli lunghi?»
«Abbastanza», confessò lui tornando indietro. «Non mi fraintendere, non eravamo professionisti. Si faceva qualche club, si suonava al Whiskey. È lì che ho conosciuto mia…» Si sbatté la mano sulla bocca.
«Certo», rise Petra. «E non solo lei, vero? Se ne conoscono a bizzeffe, giusto? È per questo che sei entrato in una band. Aspetta che indovino io… batteria.» Quelle mani sempre in movimento.
«Hai fatto centro.»
«Perché sono sempre i batteristi a farsi le ragazze, vero?»
«Non è a me che devi chiederlo», sviò lui. «Io ero sempre troppo occupato a tenere il tempo.»
«Suoni ancora?»
«Ho smesso da anni. Ho ancora la vecchia batteria che arrugginisce nel box.»
Insieme con la ruota per il lavoro di ceramica, le bici, mucchi di vecchi giocattoli, l’attrezzatura per neonati, Dio solo sapeva che cos’altro. Petra s’immaginò una casa piccola piena di mobili Levitz. Un po’ diversa dalla fattoria con annesse scuderie rimasta nel mondo dei sogni.
«Dunque dove vai ad ascoltare musica?»
«Di solito andavo al Country Club a Reseda. Non è affatto un locale country, suonano rock.»
«Lo conosco.»
«Oh, scusa.»
«E da questa parte della collina?»
«Non saprei», rispose lui. «Non è che esco molto.» Quell’ammissione lo imbarazzò. Consultò l’orologio.
«Ti aspettano a casa?» chiese lei.
«No, a quest’ora dormono. Ho telefonato prima di uscire. C’è mia madre. Volevo solo dare un colpo, sentire se è tutto a posto.»
«Puoi chiamare da casa mia», propose lei. «Sto qui vicino.»
Pensò: ha detto a sua madre che avrebbe fatto tardi. Grandi progetti o cieco ottimismo?
Per qualche ragione non le importava.
Mentre Ron parlava con sua madre, lei si rinfrescò il trucco. Per fortuna l’appartamento era in uno stato decoroso. Ci passava solo per dormire da quando era cominciata l’inchiesta. Lo invitò a togliersi la giacca. In cucina, in piedi, bevvero un bicchiere di vino rosso a testa. Lui si complimentò per l’arredamento. Cedendo alle sue insistenze, lei gli mostrò i suoi lavori. Non quelli in corso d’opera, ma il suo vecchio portfolio, fotografie a colori dei quadri che aveva venduto tramite la galleria.
Lui ne fu colpito. Non cercò di toccarla.
Si trasferirono in soggiorno e passarono in rassegna la sua piccola collezione di CD, cercando di trovare qualcosa che possedessero entrambi e dovendosi rassegnare al solo Derek and the Dominos di Eric Clapton.
Seduti sul divano a mezzo metro di distanza l’uno dall’altro, ascoltarono qualche brano, poi la mano di lui si avvicinò a quella di lei e si fermò a quindici centimetri. Coprì lei l’altra metà della distanza e le loro dita si sfiorarono, si intrecciarono.
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