Fredric Brown - La statua che urla

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— Può darsi. Voialtri la cercate?

Bline rispose: — No. Perché? La troveremmo con facilità: basterebbe controllare gli alberghi. Ma da quanto ha detto Nick, la ragazza sta bene e quindi a noi non interessa. Se sapessi che va in giro come una smemorata per lo choc…

— Non è tornata a casa a prendere i vestiti?

— No, il mio agente è ancora là e ha l’ordine di telefonarmi appena lei arriva. Penso che sia stato anche per questo che ha voluto il denaro; per non tornare indietro ad affrontare tutto il baccano.

— Bene, capo — disse Sweeney — grazie mille. Tornò al tavolo proprio mentre arrivava l’aragosta.

La mangiò pensosamente: non comprese con esattezza che cosa lo rendesse pensoso, finché non ebbe ridotto l’aragosta al solo guscio.

In quel momento, a un tratto, lo seppe, e in lui si scatenò l’inferno.

XIX

Non si affrettò. Gli portarono il caffè ed egli lo bevve con lentezza, ancora odiando se stesso per quel che pensava. Poi fu anche peggio, perché scoprì di non «pensarlo» più: lo «sapeva». Era come un gioco a incastro, dove ogni risposta da lui indovinata si adattava a una posizione e a nessun’altra.

Pagato il conto, si recò all’“El Madhouse”. Nick vedendolo entrare gli andò incontro. — Salve, Sweeney. Sono preoccupato: sapete qualcosa di dove si trovi Iolanda e se stasera abbia intenzione di venire?

— Anch’io sono preoccupato — disse Sweeney. — Non avete visto, Nick, se Iolanda uscendo sia salita in taxi?

— No, si è incamminata a piedi, verso nord.

— Com’era vestita?

— Di verde, un abito da pomeriggio, senza soprabito né cappello. E il cane era senza guinzaglio. Ditemi, per Doc è finita, vero?

— Sì.

— E aveva minacciato di ammazzare voi! Siete fortunato, Sweeney.

— Sì.

Uscì domandandosi fino a che punto sarebbe stato fortunato. Da cinque ore ormai Iolanda si era allontanata da quel luogo ed era già un colpo di fortuna che fosse andata verso nord, invece che nel Loop, dove sarebbe stato impossibile rintracciarla.

Ebbe fortuna. Dopo un isolato e trenta domande trovò un giornalaio che era rimasto a quel posto per tutto il pomeriggio e aveva visto Iolanda. Certo che la conosceva, di vista. E spiegò che gli era passata davanti voltando poi in Ohio Street.

Anche Sweeney voltò in Ohio Street.

Non era poi troppo difficile. Una bionda magnifica, vestita di verde chiaro con un cane che sembrava uscito da un romanzo di James Oliver Curwood. Dopo cinquanta metri aveva trovato altre due persone che l’avevano notata.

E infine, sulla stessa via, arrivò alla sua meta: un tabaccaio non solo aveva visto la ragazza e il cane, ma li aveva scorti entrare nella casa di fronte. — Proprio quella là, con il cartello stanze ammobiliate. — Sweeney entrò in quella casa: accanto all’uscio c’era un campanello con una scritta che diceva: Suonate per la portinaia. E Sweeney suonò.

La portinaia era una donna grossa e sciatta con un occhio storto. Le maniere dolci con lei non potevano avere efficacia e sembrava anche meno rude di quanto fosse in realtà. Sweeney tirò fuori il portafoglio e ne estrasse un biglietto da venti dollari in maniera da mostrarle la figura nell’angolo. — Vorrei parlare con la signora che ha affittato una stanza questo pomeriggio tardi. Quella col cane.

La donna non mostrò la minima esitazione nel prendere la banconota. La fece scomparire nella scollatura, in un seno così abbondante che Sweeney si domandò se le sarebbe riuscito di ritrovarla senza una lunga opera di ricerca. — Ha preso una stanza al secondo piano — rispose. — La porta in faccia alla scala.

Sweeney la ringraziò e trasse dal portafoglio un’altra banconota dello stesso valore. La donna stese la mano, ma lui non gliela diede. — Vorrei sapere i particolari: che cosa vi ha detto e che cosa ha fatto dopo essere arrivata qui.

— Che cosa volete da lei? E chi siete?

— Non importa, va bene. Vado su addirittura a parlarle — disse Sweeney e cominciò a infilare il biglietto nel portafoglio.

La donna allora parlò molto rapidamente. — È arrivata nel pomeriggio tardi e ha chiesto una stanza. Io ho detto che non teniamo cani e lei ha detto che avrebbe pagato extra e che il cane era educato, così le ho dato la stanza. Non aveva bagaglio e neppure una giacca o un cappello.

— Per quanto ha detto che si sarebbe fermata?

— Non lo sapeva, ma ha detto che avrebbe pagato per tutta la settimana senza badare a quanto si sarebbe fermata.

— Quanto ha pagato?

— Venti dollari — rispose la donna, dopo aver esitato un attimo.

Sweeney la fissò, pensando: “E tu, carogna, la vendi per altri venti”. A voce alta domandò: — E dopo?

— È uscita lasciando il cane in camera ed è tornata carica di pacchi. Poi è ridiscesa per portare a spasso il cane al guinzaglio. Prima invece non lo aveva. E si era travestita: aveva una parrucca nera, un altro vestito e degli occhiali di tartaruga. Proprio non la si sarebbe riconosciuta.

— Era una parrucca o aveva tinto i capelli?

— Una tintura non si sarebbe certo asciugata tanto presto.

— Avete altro da dirmi su di lei?

La portinaia rifletté un poco, poi scosse la testa. Sweeney le tese il secondo biglietto con precauzione, per evitare di toccarla. Lo guardò sparire nell’ampio petto e pensò che neppure per quaranta dollari sarebbe sceso in quelle profondità a ripescare le sue banconote. Qualcosa nella faccia di lui costrinse la donna a ritirarsi.

Fu un bene, perché Sweeney non desiderava sfiorarla mentre passava dirigendosi verso le scale. Quando si trovò a metà salita, udì la porta sbattere. Per quaranta dollari la portinaia poteva disinteressarsi della visita alla sua nuova ospite. Sweeney desiderò di non averle dato il denaro: avrebbe potuto comunque ricevere da lei quell’informazione e si vergognava di se stesso per aver scelto la via più facile.

Infine si trovò davanti alla porta del secondo piano e non pensò più alla portinaia che gliela aveva indicata.

Bussò delicatamente. Vi fu all’interno un movimento e l’uscio si aprì di pochi centimetri. Due grandi occhi lo fissavano dietro le lenti cerchiate di tartaruga. Ma quegli occhi lui li aveva già visti più di una volta. Lo avevano fissato senza sguardo attraverso una vetrata nella State Street, in una notte che sembrava appartenere ad anni e anni prima. Lo avevano guardato al di là di un tavolo all’“El Madhouse” e lo avevano sfiorato dal palcoscenico.

E lo avevano fissato dal viso di una statuetta nera che urlava in silenzio come la sua modella aveva urlato nella realtà.

Sweeney la salutò. — Salve, Bessie Wilson.

Gli occhi si spalancarono e la donna sussultò. Ma fece un passo indietro e Sweeney entrò.

Era una stanza piccola e misera con un letto, un armadio e una sedia, ma Sweeney non poté farci attenzione. A lui sembrò completamente riempita dal cane. Per quanto la portinaia avesse parlato dell’animale, per quanto lui stesso ci avesse pensato e avesse rintracciato Iolanda per mezzo suo, pure non aveva calcolato che Demonio sarebbe stato lì. Ma Demonio c’era. Si accucciò pronto a saltare alla gola di Sweeney e il suono che usciva dalla gola del cane era quello stesso brontolio minaccioso che Sweeney aveva già udito una volta.

— Fermo, Demonio. Tienilo d’occhio — ordinò Iolanda. Aveva chiuso la porta e Sweeney sentì la sua fronte inumidirsi e una sensazione di freddo percorrergli la schiena. Improvvisamente si rendeva conto di essersi tanto impegnato a risolvere il problema da dimenticare il pericolo in cui la soluzione di esso lo avrebbe posto.

Guardò Iolanda Lang… Bessie Wilson.

Anche con la parrucca e gli occhiali era incredibilmente bella. A quanto pareva, l’unico indumento che la copriva era una vestaglia, da cui spuntavano i piedi nudi. La vestaglia era chiusa davanti da una lunga chiusura lampo.

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