Fredric Brown - La statua che urla

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Bene, l’indomani avrebbe raccontato tutto. Se una fotografia della «Statua che urla» su quattro colonne nella prima pagina del “Blade” non avesse provocato qualche reazione… Sospirò e bevve un altro sorso.

Una mano gli batté sulla spalla.

XVII

Sweeney si voltò e si trovò davanti le spesse lenti che riparavano gli occhi di Greene e li rendevano così grossi e impressionanti.

Sorrise. — Ehi, Doc. Volete bere?

— Ho già bevuto al tavolo. Nick sta difendendomi due sedie. Venite con me.

Sweeney lo seguì a un tavolo d’angolo, portandosi dietro il suo bicchiere. Nick, in piedi accanto a loro, lo salutò e se ne andò per le sue faccende. Sweeney e Greene si sedettero.

— Trovato qualcosa? — domandò Greene.

— Forse. Non so ancora. Domani butterò fuori un grosso colpo; uno dei più grossi che si siano visti.

— Al di fuori degli assassinii di questi giorni.

— Forse più grosso.

— Sarebbe inutile chiedervi che cos’è, immagino.

— Voi ne avete già saputo qualcosa, Doc. Ma state allegro: entro dodici ore sarà per tutta la città.

— Lo aspetterò sveglio. Sono sempre preoccupato per Iolanda. Perciò spero che veramente voi abbiate scoperto qualcosa. — Si tolse gli occhiali e li pulì con cura, e Sweeney, osservandolo, notò che senza di essi cambiava espressione: appariva veramente preoccupato e stanco. E, quel che era più strano, appariva umano. Sweeney, quasi (non del tutto, ma quasi), desiderò non avere spedito a New York quei cento dollari.

Doc Greene rimise gli occhiali sul naso e fissò Sweeney attraverso le lenti, con gli occhi tornati enormi. Sweeney decise che quei dollari erano stati ben spesi.

— Nel frattempo — disse Greene — Sweeney, prendetevi cura di voi.

— Lo farò. C’è qualche motivo speciale?

Greene sogghignò. — Sì, per il mio bene. Da quando l’altra sera ho perduto la pazienza e ho parlato chiaro, l’ispettore Bline mi tiene d’occhio: pare che abbia preso sul serio il mio piccolo sfogo.

— È nel giusto?

— Mah… sì e no. In quel momento mi avevate esasperato e credo di aver parlato con convinzione. Ma, naturalmente, dopo averci riflettuto a freddo, ho giudicato di essere stato uno sciocco. Parlando in quel modo, ho compiuto proprio l’atto che vi mette al sicuro da me. Se mai decideste di uccidere un uomo, Sweeney, non andatelo ad annunciare alla polizia sperando di farcela lo stesso.

— Allora perché mi avete avvertito di badare a me stesso?

— Come vi ho detto, per mia tranquillità. Bline mi ha detto, mi ha anzi promesso, che se vi accadrà qualcosa, dopo la mia infelice e stupida dichiarazione, mi arresterà e mi manderà al diavolo. Anche se avessi un alibi, sarebbe sempre certo della mia colpevolezza. Se succede qualcosa a voi, Sweeney, io sono spacciato.

Sweeney sorrise. — Voi mi spingete a uccidermi, Doc, senza lasciare il biglietto d’addio.

— Non fatelo, per favore. Non penso che voi lo fareste, ma mi avete messo in allarme con la rivelazione che farete domani. Potreste averlo detto a qualcun altro, che non desiderasse affatto vedere sui giornali una simile rivelazione, per paura delle conseguenze. Capite quel che voglio dire.

— Sì, capisco. Ma voi siete il primo a Chicago cui io ne parli. L’altro che lo sa, si trova a centinaia di chilometri di qui. A parte che invece voi potreste raccontarlo.

— Non pensateci neppure, Sweeney. La vostra sicurezza personale è diventata fondamentale per me. Vi ho spiegato il perché. — Scosse il capo. — Sono veramente stupito di me stesso, per aver detto una cosa così stupida, in una simile compagnia. Io, un esperto psichiatra… Avete qualche nozione di psichiatria? Dalla maniera abile con cui mi avete spinto a perdere il controllo di me stesso, direi di sì… Comunque, non ha importanza, se non vi accadrà nulla. Però, finché dura questa storia, se volete prendervi una guardia del corpo, sono pronto a pagare la metà del prezzo. Willie vi piacerebbe? Avete mai incontrato Willie Harris?

— Willie è magnifico — rispose Sweeney — ma non credo che Harry Yahn sia disposto a dividerlo con me. Grazie, Doc; che abbiate parlato seriamente o no, io corro i miei rischi senza guardie del corpo. E se dovessi assumerne una, non lo verrei a dire a voi.

Greene sospirò. — Non avete ancora fiducia in me, Sweeney. Bene, debbo andare a trovare un cliente in un altro locale. Badate a voi stesso.

Sweeney tornò al bar a farsi riempire il bicchiere. Lo bevve lentamente e occupò l’intervallo fino alla seconda parte dello spettacolo, preparando il pezzo per il “Blade” dell’indomani.

Nella seconda parte dello spettacolo c’era una differenza, minima, ma molto importante: Iolanda Lang aveva una rosa rossa appuntata alla vita, sull’abito nero. Le rose di Sweeney erano dunque arrivate, nell’intervallo tra i due tempi dello spettacolo.

E lei ne aveva preso una con sé. Era tutto quel che voleva sapere. Gli parve, senza esserne certo, che gli occhi di lei incontrassero i suoi nell’attimo in cui il cane le si drizzava alle spalle. Ma quello non contava: contava solo che la rosa era sul suo abito.

Dopo lo spettacolo non cercò di vederla né di parlarle, domandandosi se fosse veramente un astuto psicologo come lo aveva definito Greene. Intorno a lei ci dovevano essere i poliziotti e Doc, se anche fosse andato a trovarla. Forse la sera dopo i poliziotti non ci sarebbero stati più a farle la guardia. E Doc… be’, a Doc avrebbe pensato al momento opportuno. Se non altro, fino a quel momento non aveva nulla da temere da parte di Greene: di ciò era convinto. Doc si era fregato con le sue stesse mani, con quella aperta minaccia alla vita di Sweeney.

Non attese la terza parte dello spettacolo: l’indomani sarebbe stata una grande giornata ed era ormai mezzanotte passata. Andò a casa e a letto, dove restò sveglio a leggere fino alle due. La sveglia alle sette e mezzo: era lunedì.

Era lunedì, una giornata luminosa e allegra, con un sole forte ma non eccessivo, considerando che si era all’11 agosto. Nessuna nuvola in cielo, e una brezza fresca dal lago. Tutto appariva piacevole.

Fece un’ottima colazione e alle nove si presentò al “Blade”, puntualmente. Appese giacca e cappello, si diresse all’ufficio di Wally Krieg, prima che il redattore capo potesse chiamarlo. Sotto il braccio portava la statuetta in un pacco.

Wally alzò la testa al suo ingresso. — Salve, Sweeney. Già passato da Crawley?

— No. Prima voglio mostrarti qualcosa — e cominciò a disfare il pacco.

— Va bene, però dopo va’ da Crawley. Stanotte hanno rubato a un rappresentante di commercio in gioielleria i suoi campioni e vogliamo arrivarci subito. È…

— Taci — interruppe Sweeney, allontanando la carta dal pacco e posando la statuetta sulla scrivania, davanti al capo redattore. — Wally, ti presento «La statua che urla».

— Piacere. Adesso togli di mezzo quella roba e…

— Taci — lo interruppe di nuovo Sweeney. — «La statua che urla» ha una sorella gemella. Una sola in tutta Chicago.

— Sweeney, che cosa stai almanaccando?

— Lo Squartatore. È lui che possiede la sorella della «Statua che urla». Noi possediamo questa, e non credere che vada in conto spese per una cifra minore del suo effettivo prezzo di vendita. Questo, naturalmente, sempre che tu voglia mandarla alla sezione fotografica e pubblicarne un ritratto in prima pagina oggi.

— Dici che lo Squartatore ne ha una copia? Sei sicuro?

— Nei limiti del possibile lo sono. Ce n’erano due a Chicago e lo Squartatore ne ha comperata una da Lola Brent proprio prima di ucciderla. Ed è probabilmente essa stessa il motivo ultimo della sua mania omicida! Prova a guardarla!

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