Fredric Brown - La statua che urla
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- Название:La statua che urla
- Автор:
- Издательство:Longanesi
- Жанр:
- Год:1953
- Город:Milano
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— Charlie. Chapman è stata un’idea di Bessie. Diceva che era più artistico. Era una bella ragazza, Sweeney. Qualche volta un po’ strana.
— Non lo siamo tutti?
— Io credo di esserlo. Qui mi chiamano tutti matto.
— A Chicago probabilmente chiamano pazzo anche me. — Sweeney alzò il bicchiere. — Vogliamo bere alla pazzia?
Charlie per un istante lo fissò cupamente. — Al nostro genere di pazzia, Sweeney — disse.
— Perché… oh, sì. Alla nostra pazzia, Charlie.
Toccarono i bicchieri e bevvero, e Sweeney si rimise a sedere.
Charlie fissava il bicchiere vuoto. — La vera pazzia è orrenda, Sweeney. Quell’assassino, coperto di sangue, con il coltello ricurvo in mano… E Bessie… era così viva. E vederla andare in pezzi… forse non è giusto dire andare in pezzi, perché implica l’idea di un progredire graduale. Invece lei è diventata pazza in un attimo, davanti a quell’esperienza. Le dicevamo di vestirsi, perché era nuda quando… ma voi avete visto la statuetta, lo sapete… Io credo che sia stato un bene che sia morta, Sweeney. Io almeno preferirei cento volte morire, che impazzire come ha fatto lei.
Si strinse la testa fra le mani.
— Terribile — mormorò Sweeney — e aveva diciannove anni.
— Venti, allora. E quando è morta nella clinica, quattro anni fa, ne aveva ventuno. Ed era bella. Non un angelo, certo. Era selvaggia, qualche volta. I nostri genitori erano morti quando io avevo ventiquattro anni e Bessie quindici, dieci anni prima. Lei è andata da una zia, che ha cercato di educarla, ma poi se ne è scappata a St. Louis. Però con me si faceva viva spesso. E quando cinque anni dopo si è trovata nei guai, è da me che è venuta. Era… be’, quella faccenda con il pazzo l’ha portata fuori di carreggiata. — Alzò gli occhi. — Forse è molto meglio che ormai ne sia fuori: la vita può essere un inferno.
Sweeney si alzò e batté sulla spalla di Charlie. — Non pensateci più, andiamo! — Versò un altro bicchiere a entrambi e infilò quello di Charlie nella mano di lui.
Andò in giro per lo studio a esaminare i dipinti appesi, da vicino. Non erano male, per niente male.
Charlie riprese a parlare. — Eravamo vicini, molto vicini, molto di più di quanto non siano di solito fratello e sorella. Non abbiamo mai mentito uno con l’altro. Lei mi aveva raccontato tutto quel che aveva fatto a St. Louis e tutti gli uomini che aveva incontrato. Era stata cameriera e poi corista in una commedia musicale; ed era quello il suo mestiere quando si è accorta di aspettare un figlio. Allora è venuta qui. E poi quel miserabile scappato…
— Non parlatene più, basta — ordinò secco Sweeney.
— È morto troppo in fretta. Se gli avessi sparato alle gambe invece che al cuore, avrei potuto prendergli il coltello e… ma non l’avrei fatto, lo so. — Scosse lentamente il capo. — In ogni modo, gli ho fatto un bel buco. Tanto grande da farci passare dentro la testa.
Sweeney sospirò e sedette. — Dimenticatelo, Charlie. Parliamo di pittura.
Charlie annuì lento. Parlarono di pittura e poi di musica e poi tornarono alla pittura. La bottiglia di Sweeney fu vuotata e passarono al gin di Charlie. Era discretamente perfido. Dopo un poco, Sweeney trovava difficile fermare lo sguardo sui quadri di cui stavano discutendo, ma la mente gli era rimasta chiara. Abbastanza chiara da rendersi conto che stava trascorrendo una magnifica serata, con una delle conversazioni più interessanti che godesse da molto tempo. Non gli dispiaceva più di essere venuto a Brampton: Charlie gli piaceva, era della sua stessa razza. E teneva bene l’alcol, proprio bene. Aveva la lingua impastata, ma parlava sempre con logica.
Anche Sweeney era in quelle condizioni ed era ancora tanto in sé da tener d’occhio l’orologio. Quando furono le dieci e un quarto, un’ora prima della partenza del treno, disse a Charlie che doveva andare.
— In auto?
— No. Ho prenotato un posto sul treno delle undici e un quarto. Ma c’è un bel po’ di strada per la stazione. Ho passato una splendida serata.
— Non c’è bisogno di andare a piedi. C’è un autobus che percorre Main Street. Potete prenderlo all’angolo. Vi accompagno.
L’aria fredda della notte gli fece bene e cominciò a riportarlo alla sobrietà.
Charlie gli piaceva e avrebbe voluto fare qualcosa per lui. Anzi, d’improvviso vide in un lampo il «modo» di essergli utile. — Charlie — disse — ho un’idea per farvi guadagnare quei dollari con la statuetta, senza la pubblicità che non volete. Deve essere una pubblicità per la statuetta in sé, senza nominare né voi né vostra sorella.
— Va bene, se potete farlo…
— Certo che posso. Proprio da Chicago. Vedete, Charlie, io so qualcosa che nessun altro sa ancora e che può fare un gran chiasso intorno alla statuetta, senza parlare di come sia stata concepita e modellata. Il vostro nome e quello di vostra sorella non c’entreranno neppure.
— Se potete tenerne fuori Bessie…
— Certo, è facile. La vostra storia non è quella che importa veramente, almeno per quello di cui io voglio parlare. È un peccato, ma possiamo non farne cenno. E per quel che vi riguarda, manderò un telegramma alla Ganslen, perché comincino la lavorazione di un grosso lotto di statuette, per averle pronte quando scoppierà la bomba. Sentite, Charlie, non venite mai a Chicago?
— Da un paio d’anni no.
— Quando avrete ricevuto un po’ di quei dollari, venite a passare una serata con me. Vi mostrerò la città. Se arrivate in città di giorno telefonatemi, al “Blade”, in cronaca. Se arrivate di sera, invece, chiamatemi al…
— Cronaca? “Blade”? Voi siete un giornalista?
— Oh, Dio! — esclamò Sweeney disperatamente. Non avrebbe dovuto parlare, avrebbe dovuto mettersi subito e in fretta le mani sullo stomaco. Ma non lo fece.
Il pugno di Charlie arrivò sfiorando il polso di Sweeney e questi si piegò come un burattino, in tempo per ricevere il secondo pugno di Charlie sul mento. Ma, come era accaduto prima, sul mento non lo sentì neppure. Udì Charlie dire: — Sporco vigliacco, figlio di puttana, bugiardo… vorrei che ti alzassi per picchiarti.
Nulla era più lontano dalla mente di Sweeney, o meglio da quello che restava della sua mente. Non riusciva neanche a parlare, perché, se avesse aperto la bocca, ne sarebbe uscito qualcosa, ma non parole.
Udì Charlie allontanarsi.
XVI
È superfluo descrivere come si sentisse Sweeney: era la terza volta che riceveva un pugno nello stomaco e non era molto diverso dalle prime due, salvo che per il numero. Entrare in particolari sarebbe un sadismo, se non una ripetizione, ed è già sufficiente che egli abbia dovuto sopportarlo per la terza volta, perché voi e io non lo sopportiamo.
Dopo qualche minuto riuscì a sedere sul marciapiede, sempre tenendosi piegato, finché vide e udì arrivare l’autobus e, alzandosi in piedi, per quanto non diritto, arrivò a salirci sopra.
Sull’autobus sedette ripiegato in due, e ripiegato sedette in attesa alla stazione, e infine in treno si ripiegò su se stesso nella cuccetta prenotata. Non riuscì a prendere sonno, pesantemente, altro che alle prima luci dell’alba, quando ormai il treno era in vista di Chicago.
Comunque, nel tempo che impiegò per arrivare a casa, constatò che il peggio era ormai passato e infilatosi a letto, si addormentò. Si risvegliò che era pomeriggio inoltrato (le due e tredici minuti, se volete la precisione assoluta) ed era ormai in grado di camminare diritto.
Era domenica, l’ultimo giorno delle sue vacanze, e si erano già fatte le tre, prima che egli fosse lavato e vestito.
Sceso in strada, si guardò intorno con occhio smarrito, su e giù per Erie Street, finché decise di dirigersi a est, per tentare di scoprire su Dorothy Lee e sul suo assassinio qualcosa che la polizia non avesse scoperto. Non credeva affatto di riuscirci, affatto.
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