«Eliot scrisse: ‘I santi e i martiri dettan legge dalla tomba’.»
«Eliot? È un poeta?»
«T. S. Eliot. Un poeta, già.»
«’Santi e martiri dettan legge dalla tomba.’ Non lo conosco, ma non mi sembra un poeta ufficiale ; piuttosto un sovversivo.» Viktor rise di gusto, apparentemente divertito all’idea che il suo amico, indefesso lavoratore, potesse essere un traditore.
Insieme aprirono la porta interna. Stefan trascinò gli esplosivi nella sala al pianoterra dell’istituto e accese le luci.
«Se ha intenzione di venire spesso a lavorare nel cuore della notte», continuò Viktor, «le porterò un po’ di torta che fa mia moglie, per darle un po’ di carica.»
«Grazie, Viktor, ma mi auguro che non diventi un’abitudine.»
La guardia richiuse la porta e la serratura scattò automaticamente.
Quando rimase solo pensò, non per la prima volta, alla fortuna di essere biondo, occhi azzurri e di corporatura robusta. Il suo aspetto spiegava la noncuranza con cui trasportava quegli esplosivi in giro per l’istituto senza il timore di venire perquisito o sospettato. Non c’era nulla di subdolo o furtivo in lui. Era l’uomo ideale, angelico quando sorrideva e devoto al paese. E uomini come Viktor non avrebbero mai messo in dubbio la sua dedizione e la sua obbedienza.
Salì al terzo piano e andò direttamente al suo ufficio, accese una lampada, si tolse gli stivali di gomma, l’impermeabile e scelse una cartelletta dallo schedario. Dispose il contenuto sulla scrivania, per dare l’impressione che stesse lavorando. Nel caso improbabile che un altro membro dell’organico decidesse di fare la sua comparsa nel cuore della notte, era necessario evitare i sospetti.
Presa la valigia e una pila, salì le scale che portavano al quarto piano e raggiunse il solaio. Il fascio di luce illuminò enormi travi da cui spuntavano qua e là chiodi arrugginiti. Il solaio non veniva usato come magazzino. Era sgombro, a parte uno spesso strato di polvere e di insetticida. Il tetto d’ardesia a spiovente consentì a Stefan di stare eretto solo al centro.
Lo scrosciare incessante della pioggia gli richiamò alla mente l’immagine di una flottiglia di bombardieri che volava a bassa quota sopra di lui, forse perché era convinto che un simile disastro si sarebbe abbattuto sulla sua città.
Aprì la valigia con la rapidità e la sicurezza di un esperto, sistemò il plastico e plasmò ogni carica in modo da direzionare l’esplosione verso il basso e all’interno. La detonazione non doveva semplicemente far saltare il tetto ma polverizzare i piani intermedi, riducendo tutto a un ammasso di macerie. Nascose il plastico fra le travi e negli angoli e sistemò una carica sotto due assi del pavimento.
Il temporale sembrò calmarsi, ma per poco. Subito dopo riecheggiarono nella notte tuoni sinistri e la pioggia riprese a cadere con più violenza accompagnata dal vento che, ululando e sibilando sotto le grondaie, sembrava minacciare e al contempo compiangere la città.
Il freddo gli penetrò nelle ossa e Stefan proseguì il delicato lavoro con le mani sempre più tremanti, ma nonostante i brividi cominciò a sudare.
Inserì un detonatore in ogni carica e riunì i fili nell’angolo a nord-ovest del solaio. Li intrecciò a formare un unico cavo di rame, calandolo, lungo un condotto di aerazione che arrivava direttamente al seminterrato.
Le cariche e il cavo erano stati ben mimetizzati e non sarebbero stati scoperti se qualcuno avesse aperto la porta del solaio per gettarvi una rapida occhiata, ma non sarebbero certo sfuggiti a un controllo più accurato. Aveva bisogno di ventiquattr’ore, durante le quali nessuno doveva andare nel solaio. In fondo non chiedeva molto, considerando che era l’unico a essere entrato in quel solaio da mesi.
La notte seguente sarebbe tornato con una seconda valigia e avrebbe sistemato le cariche nel sotterraneo. Schiacciare l’edificio fra due esplosioni simultanee era l’unico modo per essere certi di ridurre la struttura e i suoi contenuti a un cumulo di macerie. Dopo la deflagrazione e l’incendio che ne sarebbe seguito, non doveva rimanere più alcuna documentazione che potesse favorire la ripresa della pericolosa ricerca che si stava svolgendo nell’istituto.
La grande quantità di esplosivo, nonostante la precisione con cui era stato piazzato, avrebbe danneggiato le strutture di tutte le ali dell’edificio e alcuni innocenti sarebbero rimasti uccisi. Ma non poteva farci nulla. Quei morti non potevano essere evitati. Non aveva osato ridurre il quantitativo di plastico perché, se tutto il materiale non fosse stato distrutto completamente, il progetto sarebbe stato subito ripreso e ciò avrebbe segnato la fine del genere umano. Se degli innocenti fossero periti, sarebbe vissuto con quel peso sulla coscienza.
Ritornò nel suo ufficio al terzo piano e si sedette per un momento alla scrivania. Voleva aspettare che gli si asciugassero i capelli e cessasse il tremito che lo scuoteva tutto. Voleva evitare che Viktor notasse qualcosa di strano.
Chiuse gli occhi e rivide il viso di Laura. Riusciva sempre a calmarsi quando pensava a lei. Il semplice fatto che lei esistesse lo riempiva di pace e di grande coraggio.
Gli amici di Bob Shane non volevano che Laura seguisse i funerali del padre perché pensavano che a una ragazzina di dodici anni dovesse essere risparmiata una cerimonia tanto dolorosa. Ma lei insistette con tanta determinazione che nessuno riuscì a dissuaderla.
Quel lunedì 24 luglio 1967 fu il giorno più infelice della sua vita, anche più doloroso del sabato precedente quando suo padre era morto. L’effetto dei calmanti che le avevano somministrato stava esaurendosi. Lentamente cominciò a realizzare l’entità di quella perdita.
Scelse un vestito blu scuro, non possedendone uno nero, indossò scarpe nere e un paio di calzettoni blu scuro. Temette di apparire troppo frivola con quei calzettoni. Del resto non aveva mai indossato calze di nylon e non le sembrava una bella idea metterle per la prima volta proprio al funerale. Si aspettava che il padre la guardasse dal cielo durante il servizio funebre e lei desiderava essere proprio come lui la ricordava. Se l’avesse vista con le calze di nylon, quasi a voler avere un’aria adulta, avrebbe potuto sentirsi imbarazzato per lei.
Nella camera mortuaria Laura sedette in prima fila fra Cora Lance, proprietaria della profumeria poco distante dalla drogheria Shane, e Anita Passadopolis, che aveva fatto beneficenza insieme con Bob alla Chiesa presbiteriana di St. Andrew. Avevano superato entrambe la cinquantina e trattavano entrambe Laura come se fosse una nipotina, accarezzandola in modo rassicurante e osservandola spesso con preoccupazione.
Ma non avevano bisogno di preoccuparsi. Non si sarebbe abbandonata a una crisi di pianto, né si sarebbe strappata i capelli. Sapeva che tutti dovevano morire: le persone, i cani, i gatti, gli uccelli e anche i fiori. Anche le vecchie sequoie morivano, prima o poi, sebbene vivessero venti o trenta volte più a lungo degli uomini, il che non le sembrava tanto giusto. D’altro canto, vivere un centinaio d’anni come un albero sarebbe stato certamente molto più noioso che vivere per soli quarantadue anni come un felice essere umano. Suo padre ne aveva quarantadue quando aveva avuto l’attacco di cuore. Un attacco improvviso. Ma così andava il mondo e piangerci sopra non aveva senso. Laura si sentì orgogliosa della propria saggezza.
La morte, poi, non significava la fine di una persona. La morte in realtà era solo l’inizio di un’altra vita, migliore. Era certa che fosse così perché glielo aveva detto suo padre, e lui non mentiva mai. Suo padre era l’uomo più sincero, dolce e gentile che fosse mai esistito.
Quando il pastore si avvicinò al leggìo, alla sinistra della bara, Cora Lance si chinò verso Laura. «Stai bene, cara?» le chiese.
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