Si avvicinò alla finestra della camera e tirò la tendina trasparente, certa che l’avrebbe visto lì, fermo nella strada, che guardava il negozio. Ma lui non c’era.
Neppure l’uomo vestito di nero era lì, ma lei non si era aspettata di vederlo. Era in parte convinta che l’altro sconosciuto non avesse alcuna relazione con il suo Custode, pensava che fosse al cimitero per qualche altra ragione. Certo conosceva il suo nome… ma forse aveva sentito Cora chiamarla qualche momento prima, dalla cima della collina. Era in grado di cancellarlo dalla sua mente perché non voleva che lui fosse parte della sua vita, mentre desiderava disperatamente avere un Custode speciale.
Rilesse il messaggio.
Sebbene non comprendesse chi fosse quell’uomo biondo o perché si fosse preso tanta cura di lei, Laura si sentì rassicurata dal biglietto che le aveva lasciato. Comprendere non sempre è necessario, l’importante è credere.
La notte seguente, dopo che aveva sistemato gli esplosivi nel solaio dell’istituto, Stefan ritornò con la stessa valigia, sostenendo ancora una volta di soffrire d’insonnia. Prevedendo quella visita notturna, Viktor gli aveva portato metà del dolce che aveva preparato sua moglie, come promesso.
Stefan sbocconcellò il dolce mentre modellava e sistemava gli esplosivi al plastico. L’enorme sotterraneo era diviso in due stanze e al contrario del solaio veniva usato giornalmente dal personale. Avrebbe dovuto nascondere le cariche e i cavi con particolare attenzione.
La prima camera conteneva i documenti relativi alla ricerca e un paio di lunghi tavoli da lavoro. Gli schedari, alti circa due metri, erano disposti in fila lungo due pareti. Riuscì a collocare gli esplosivi in cima agli schedari, nascondendoli contro le pareti, dove neppure il più alto degli addetti avrebbe potuto vederli.
Collegò i fili dietro gli schedari, anche se fu costretto a praticare un piccolo buco nella parete divisoria per far arrivare il filo di detonazione nell’altra camera. Il buco si trovava in una posizione che non avrebbe destato l’attenzione di nessuno e i cavi erano visibili solo per un paio di centimetri su entrambi i lati della parete divisoria.
La seconda stanza veniva usata come magazzino per le forniture dell’ufficio e del laboratorio e anche per ospitare tutti gli animali che avevano fatto da cavia ed erano sopravvissuti nei primi esperimenti all’istituto: numerosi criceti, qualche topolino bianco, due cani e una scimmia rinchiusa in una grande gabbia con tre sbarre su cui poteva dondolarsi. Sebbene gli animali non servissero più, venivano tenuti sotto osservazione nel caso manifestassero problemi clinici imprevisti che potevano essere collegati alle loro singolari avventure.
Stefan sistemò le potenti cariche al plastico nelle cavità che si trovavano dietro le forniture ammassate e portò tutti i cavi verso la griglia del condotto di aerazione lungo il quale aveva lasciato cadere, la notte prima, i cavi del solaio. Mentre lavorava, si accorse che gli animali osservavano con un’intensità insolita, come se sapessero che avevano meno di ventiquattr’ore da vivere. Si sentì arrossire per la vergogna, un turbamento che invece non aveva provato quando aveva pensato alla morte degli uomini che lavoravano nell’istituto.
Forse perché gli animali erano innocenti, mentre gli uomini no.
Alle quattro del mattino aveva finito. Prima di lasciare l’istituto si diresse verso il laboratorio al pianterreno e rimase a fissare per un minuto il tunnel.
Il tunnel.
I segnali dei quadranti, degli indicatori e dei grafici nella macchina del tunnel si coloravano di arancione, giallo o verde.
La «cosa» era di forma cilindrica, lunga circa quattro metri e con un diametro di tre, appena visibile nella fioca luce; l’involucro esterno in acciaio inossidabile rifletteva debolmente i segnali luminosi che lampeggiavano nella macchina che occupava tre delle pareti della stanza.
Aveva usato il tunnel migliaia di volte, ma continuava ad averne soggezione, non tanto perché fosse un’incredibile conquista scientifica, ma perché il suo potenziale distruttivo era illimitato. Non era il tunnel per l’inferno, ma nelle mani degli uomini sbagliati avrebbe anche potuto diventarlo. Ed era veramente nelle mani di uomini sbagliati.
Dopo aver ringraziato Viktor per il dolce, fece ritorno al suo appartamento.
Per la seconda notte consecutiva infuriava la tempesta. La pioggia scrosciava con violenza. L’acqua scendeva schiumante dalle grondaie, per riversarsi nei tombini, colava dai tetti e formava grandi pozzanghere nelle strade e poiché la città era immersa nell’oscurità le pozze e i rivoli sembravano scure macchie d’olio. Si aggiravano solo alcuni militari coperti da scuri impermeabili.
Stefan prese la via diretta per tornare a casa, superando senza difficoltà i posti di blocco che conosceva. I suoi documenti erano in ordine, anche il lasciapassare che gli consentiva di circolare nelle ore notturne era regolare e inoltre non stava più trasportando esplosivi.
Arrivato a casa, puntò la sveglia e si addormentò quasi subito. Aveva un disperato bisogno di dormire perché lo attendeva una giornata difficile: due viaggi pericolosi e parecchi morti. Se non fosse stato più che all’erta, avrebbe potuto trovarsi sulla pericolosa traiettoria di una pallottola.
Sognò di Laura e ciò gli parve un buon presagio.
Come l’amaranto che viene trascinato lungo i deserti della California dalla furia del vento, così Laura Shane visse dai dodici ai diciassette anni, arrestandosi brevemente qua e là nei momenti di calma; poi, a una nuova folata di vento, veniva strappata e cominciava nuovamente a vorticare.
Non aveva parenti e, non poteva rimanere con i migliori amici di suo padre, i Lance. Tom aveva sessantadue anni e Cora cinquantasette e nonostante fossero sposati da trentacinque anni, non avevano figli. La prospettiva di dover crescere una ragazzina li aveva spaventati.
Laura comprese e non gli serbò rancore. Il giorno in cui lasciò la casa dei Lance, in compagnia di un’assistente sociale, Laura baciò sia Cora sia Tom assicurandoli che sarebbe stata bene. Mentre si allontanava agitò festosamente la mano in segno di saluto, con la speranza che si sentissero assolti.
Assolto. Una parola di recente acquisizione. Assolto: prosciolto dall’accusa di aver commesso qualche cattiva azione; liberato o sciolto da un impegno, un obbligo morale o una responsabilità. Sperava di poter essere assolta dall’obbligo di procedere nella vita senza la guida di un padre amorevole, dalla responsabilità di vivere e andare avanti nel suo ricordo.
Dalla casa dei Lance fu portata in un orfanotrofio, l’istituto McIlroy, un vecchio palazzo fatiscente in stile vittoriano, con ventisette stanze, costruito da un magnate dell’agricoltura nell’epoca in cui nella regione il settore aveva conosciuto momenti di gloria. In seguito era stato trasformato in istituto dove venivano ospitati temporaneamente i bambini sotto custodia pubblica, prima che venissero dati in affidamento. L’istituto era diverso da quelli descritti nei libri, soprattutto perché non c’erano suore gentili avvolte in ampie tonache fluttuanti.
C’era invece Willy Sheener.
Laura lo notò per la prima volta subito dopo il suo arrivo, mentre un’assistente sociale, la signora Bowmaine, le stava mostrando la stanza che avrebbe dovuto dividere — così le disse — con le gemelle Ackerson e con Tammy. Sheener stava spazzando il pavimento del corridoio.
Era un uomo sulla trentina, forte, di corporatura robusta, carnagione pallida, tutto lentigginoso, con capelli rosso rame e occhi verdi. Sorrise e mentre lavorava sibilò: «Come sta questa mattina, signora Bowmaine?»
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