Il nero spalancò la porta e Bishop gli sparò. Tirò il grilletto due volte, e l’uomo si accasciò contro lo stipite, morto.
Non era ancora caduto, che già Bishop lo stava scavalcando per scendere le scale.
Fuori la situazione era difficile. Gli spari si erano sentiti e gli altri due uomini armati stavano correndo verso di lui. Uno arrivava dal lato del capannone, a sinistra, l’altro dal folto della foresta a destra. Erano veloci e decisi, pronti a colpire.
Bishop si aggrappò alla ringhiera della scala e, quando aprirono il fuoco, con un volteggio si buttò fuori. Gli spari dei mitra tagliarono l’aria mentre lui cadeva nel buio. Toccò terra e rotolò via alla cieca. I proiettili colpirono rumorosamente la lamiera della baracca, alle sue spalle. Bishop saltò in piedi, sparò verso i suoi assalitori e si mise a correre.
In un attimo girò l’angolo dell’edificio e si ritrovò fra gli alberi. Correva a zig-zag, cercando di trovare riparo dietro i tronchi degli alberi. La luna non si vedeva più, il buio era quasi totale, a parte le luci delle torce che balenavano qua e là. Si udirono le grida degli uomini, poi una raffica di mitra. Dei pezzi di corteccia lo colpirono in volto, staccati da un proiettile, e sentì che altri avevano colpito il terreno accanto ai suoi piedi. Si gettò di nuovo a terra, rotolò su se stesso e rimase appiattito al suolo. Ventre a terra, sparò ancora, poi scorse la sagoma di uno degli uomini chinarsi tra le ombre della foresta. Improvvisamente una luce lo colpì negli occhi. Fece fuoco in quella direzione e il raggio di luce si mosse scompostamente, diretto verso l’alto.
Cercò di approfittare del momento di confusione. Si alzò e corse via nel buio. Tentò di sparare un colpo per coprirsi le spalle, ma i proiettili erano finiti. Imprecando, si sbarazzò dell’arma e continuò a correre, alzando bene i piedi per non correre il rischio di inciampare e cadere.
Udì ancora delle grida dietro di lui, ma sempre più lontane. Non sapevano che non aveva più proiettili e nessuno quindi aveva molta fretta di seguirlo nella foresta. Con un po’ di fortuna, sarebbe potuto arrivare prima di loro all’aereo, andare via e far sapere dell’elicottero.
Mentre correva, però, non riusciva a liberarsi da un pensiero. Kathleen. Lì intorno, da qualche parte, Goldmunsen e Flake la stavano portando a una palude, per piantarle un proiettile nella nuca. Bishop non era dotato di una grande fantasia, ma non aveva difficoltà a immaginarla distesa a faccia in giù, con il sangue che si perdeva nell’acqua fangosa.
Ma lui che cosa poteva fare? L’aveva avvertita. Le aveva detto che le cose potevano precipitare, le aveva detto di mettersi in salvo. La sua coscienza era a posto. Aveva seguito le regole. Non poteva certo fare dietrofront e andare a salvarla. Non era suo dovere, comunque. Doveva arrivare al Cessna. Questa era la sua missione. Kathleen non faceva parte della missione.
E poi, pensò, era probabile che fosse già morta, che il suo corpo fosse già a faccia in giù nella palude.
Se lo vide davanti agli occhi, quel corpo che aveva abbracciato, e continuò a correre, schivando come poteva gli ostacoli nel bosco buio.
Weiss a quel punto aveva quasi trovato ciò che stava cercando, seduto al computer del suo ufficio, al buio. Aveva davanti a sé tutte le informazioni che gli servivano.
Il motore di ricerca Endgame, riservato agli investigatori professionisti, conteneva circa cinquecento database, compresi i documenti di tutti i dipartimenti di polizia e delle carceri, le fedine penali di tutti i criminali, le sentenze dei tribunali. Elaborò in breve tempo una lista di uomini che erano stati trasferiti a North Wilderness negli ultimi tre mesi, da quando Pomeroy vi era entrato in custodia. Erano circa centocinquanta nomi. Molti di questi, però, erano in prigione da mesi, alcuni da anni, e solo dodici erano fuori quando Julie Wyant era scomparsa.
Tutti e dodici erano assassini, naturalmente. Per arrivare a North Wilderness, l’assassinio era il primo passo da fare. Weiss cercò i particolari dei loro crimini. Vendette tra bande, sparatorie in luoghi pubblici, uno di Los Angeles che aveva fatto a pezzi la fidanzata… Analizzò tutti i casi, non solo attraverso le pratiche di polizia, ma anche leggendo gli articoli di giornale. In verità sarebbe potuto arrivare alla risposta molto più in fretta, ma non si fidava completamente del proprio istinto, delle illuminazioni. Era molto scrupoloso in quel senso. Procedeva adagio, come una persona che si fa strada in una stanza sconosciuta di notte, a tentoni. Voleva che ogni elemento avesse un senso logico.
Le grosse dita battevano sulla tastiera e gli occhi scrutavano lo schermo, che spandeva la sua luce bianca sui lineamenti pesanti di Weiss. Eliminava i nomi e i fatti con misurata lentezza. Per esempio, prima di ritornare in cella Pomeroy aveva vagamente descritto Shadowman, così Weiss sapeva che l’individuo che cercava era bianco; però era riluttante a escludere latinoamericani, perché temeva che l’assassino usasse qualche travestimento. Cancellò invece i neri. Sapeva anche che Shadowman aveva fretta di entrare in prigione, perciò eliminò quelli che avevano permesso al loro caso di arrivare al processo, quelli che erano stati arrestati dopo lunghe indagini e quelli arrestati dopo più di due o tre giorni dal crimine.
Di certo era un procedimento scientifico, ma era anche una perdita di tempo. Se solo avesse ascoltato il suo istinto, invece della logica, avrebbe saputo chi era il suo uomo. Perché Weiss aveva quel talento particolare per seguire il pensiero del killer e addirittura prevederne le mosse. Sapeva esattamente qual era il tipo di delitto più adatto a lui. L’assassino, secondo lui, doveva aver scelto la vittima a caso. Perché no? Avrebbe ottenuto lo stesso risultato uccidendo chiunque. Ma doveva esserci qualcosa in più: doveva aver lasciato involontariamente una firma, il marchio della sua personalità omicida, come un’impronta lasciata per distrazione. Doveva averci messo un po’ di sadismo, un’efficienza esasperata, una maniacale ricerca di perfezione, ma anche, senza volere, una perversa ironia. La vittima doveva essere giovane, una donna probabilmente, bella, intelligente, sicura di sé. Una giovane mamma o, meglio ancora, una giovane fidanzata. Una persona che fosse amata, con un futuro davanti, che sarebbe stata rimpianta. Doveva essere una donna con un lavoro di prestigio, entro certi limiti, perché il killer non voleva certo una persona troppo intelligente o furba. Doveva aver scelto una creatura dolce e felice, all’alba della vita, così nell’ucciderla avrebbe provato un’insana soddisfazione per il suo grottesco incontro con la morte.
Weiss sapeva queste cose, ma non ne era neppure del tutto cosciente, perché non avevano la solidità della logica. Erano impressioni troppo simili alla superstizione. Impiegava dunque preziosi minuti ad analizzare i delitti commessi dagli assassini della lista. Questo lavoro, però, fin dall’inizio, continuava a riportarlo a un unico caso.
Richiamò sullo schermo un articolo sulla morte di Penny Morgan. La ragazza, una ventitreenne di San Francisco, era stata uccisa durante una rapina nel suo appartamento. Si era appena fidanzata, asseriva l’articolo. Era descritta come simpatica, allegra, disponibile. Le avevano sparato in faccia, a distanza ravvicinata. Subito dopo aver udito i colpi di pistola i vicini avevano chiamato la polizia, che era arrivata giusto in tempo per vedere l’assassino che cercava di scappare con un magro bottino di denaro e gioielli. Aveva confessato un’ora dopo l’arresto.
Weiss si appoggiò allo schienale, allontanandosi dalla luce dello schermo. Il suo viso svanì nel buio della stanza mentre leggeva ancora l’articolo da cima a fondo. Sarebbe andato avanti a controllare gli altri casi fino a essere del tutto sicuro, ma già ora la sua voce si levò nel buio, in un sussurro.
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