Andrew Klavan - Shadowman

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Shadowman: краткое содержание, описание и аннотация

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Un investigatore romantico, arguto e profondo conoscitore dell’animo umano; un motociclista e pilota, cinico e testardo, che non esita a menare le mani, e infine un giovane apprendista detective, idealista e sognatore. Sono questi i tre eroi della Weiss Investigations, un’agenzia che, sullo sfondo mutevole di San Francisco, si trova coinvolta in una fitta trama di casi che alla fine convergono in un unico grande complotto. Sembra, infatti, che dietro a tutti i delitti, gli attentati e le trame criminali ci sia un killer che nessuno ha il coraggio di nominare.
, l’uomo ombra, и una realtа o soltanto un nome, dato per spaventare poliziotti e delinquenti? И un astuto criminale o solo un fantomatico personaggio inventato per archiviare i troppi delitti irrisolti? Ma la presenza di
и reale, presente in ogni tassello di un complesso mosaico di azioni criminali finalizzate a un piano che lui solo conosce. E che solo gli agenti della Weiss Investigations sapranno svelare…
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«Ci sarà merda sul mio cazzo, stanotte, o sangue sul mio coltello. Scegli», grugnì Rip.

E l’uomo chiamato Ben Fry scelse. Quando le guardie arrivarono al mattino, il gigantesco Rip giaceva sul pavimento coperto di sangue ed escrementi, praticamente in coma.

Dopo tre settimane in isolamento, l’uomo chiamato Ben Fry uscì da Pelican Bay — esattamente come aveva previsto — diretto a North Wilderness.

Era ormai giugno, il mese in cui Jim Bishop era giunto a Driscoll sulla sua moto, quando l’uomo chiamato Ben Fry arrivò alla nuova residenza forzata. La cella misurava tre metri per due e aveva una finestra, che però non si apriva ed era troppo alta perché si vedesse qualcosa. C’erano anche un giaciglio di cemento e un lavabo e un gabinetto in acciaio con controllo automatico dell’acqua. Lo sciacquone, per esempio, di solito veniva attivato tre volte al giorno, questo per impedire ai galeotti di usarlo a loro piacimento e comunicare attraverso le tubature. Anche le porte erano comandate a distanza da una postazione esterna ai bracci di detenzione. Erano costituite da una fitta rete in acciaio che rendeva difficile sfondarla tirando oggetti, vedere all’esterno o parlare con i compagni vicini, a causa del rimbombo. L’uomo chiamato Ben Fry passava circa ventitré ore al giorno in questa cella. Raramente parlava o vedeva altri esseri umani.

Le celle erano allineate in gruppi di otto (quattro per lato) in sei bracci disposti a semicerchio intorno a una cabina dai vetri corazzati. Da quella postazione, le guardie vedevano direttamente i corridoi e sorvegliavano le celle attraverso quattro monitor, su cui apparivano a turno le immagini delle varie telecamere. Su un altro monitor scorrevano le immagini del cortile dove i detenuti trascorrevano l’ora d’aria. L’uomo chiamato Ben Fry era al corrente di tutto questo, perché aveva studiato e memorizzato le piante e i vari sistemi della struttura.

Aveva a disposizione un’ora d’aria al giorno, da trascorrere in cortile. Quando la porta della cella si apriva automaticamente, procedeva da solo lungo il corridoio, sempre sorvegliato dagli occhi indiscreti delle telecamere. Il cortile era poco più grande della cella, tre metri e mezzo per tre; era come una scatola di cemento armato con un coperchio di rete metallica, da cui filtrava abbastanza luce solare per trasformarlo in un forno. L’uomo chiamato Ben Fry camminava lungo il perimetro, eseguiva flessioni sulle braccia, salti e altri esercizi, poi rientrava. Gli era permesso uscire dalla cella altre tre volte alla settimana, per la doccia.

Ma per la maggior parte del tempo — ventitré ore al giorno — il suo orizzonte era la cella. La cella e il tempo, la pianura di tempo vuoto che si stendeva all’infinito davanti a lui. Per ventitré ore al giorno, l’uomo chiamato Ben Fry stava sdraiato sul giaciglio di cemento. Da lì saliva sulla torre e osservava dall’alto la distesa del tempo, senza più preoccupazioni. In alcuni di quei bianchi momenti senza fine, la torre sembrava talmente reale da fargli temere di essere sul punto di impazzire. Ma questa sensazione era meglio di ciò che provava quando era giù, nel mondo, senza pensare, a osservare il vuoto davanti a sé. Ed era meglio del mondo rosso, strisciante e beffardo dei suoi sogni.

Trascorse una settimana così. Poi, un giorno, due guardie entrarono in cella, lo ammanettarono, lo fecero inginocchiare e gli bloccarono le caviglie. Tirandolo poi insieme per le braccia, lo trascinarono lungo il corridoio fino alla cabina di controllo.

Fu un momento importante per lui, perché per circa venticinque secondi, mentre lo trascinavano, poté scorgere due dei monitor attraverso i vetri della postazione. Vide l’immagine di una cella e contò per quanto tempo rimaneva sullo schermo. Dieci secondi. Poi le guardie lo condussero via lungo un altro corridoio.

Lo portarono in una stanza dove c’era una sedia di metallo fissata al pavimento e rivolta verso una parete trasparente antiproiettile. Le guardie lo fecero sedere sulla sedia e gli legarono le caviglie ad anelli infissi al suolo. Poi lo ammanettarono ai braccioli e attesero alle sue spalle.

Dall’altra parte della parete trasparente si aprì una porta e un uomo entrò. Era magro e indossava un abito costoso, grigio scuro. Arricciò il naso guardandosi in giro, tenendo i gomiti stretti ai fianchi e le mani chiuse una nell’altra. Sembrava una persona pignola e sprezzante.

L’uomo magro si sedette davanti all’uomo chiamato Ben Fry e parlò. La voce, alta e nasale, venne trasformata dal microfono in un suono intermittente, simile a quello emesso da un robot.

«Come va oggi, signor Fry?» chiese.

L’uomo chiamato Ben Fry annuì mantenendo uno sguardo assente, un’espressione ebete.

«Ho saputo che era qui, e volevo essere sicuro, prima di procedere come stabilito. Ma ora lo farò.»

L’uomo chiamato Ben Fry annuì nuovamente.

«Sono contento di vedere che sta bene», aggiunse l’altro. «Allora…» concluse, e si alzò per andarsene.

Le guardie slegarono dalla sedia l’uomo chiamato Ben Fry e gli fecero ripercorrere il corridoio. Poté vedere di nuovo i monitor nella cabina delle guardie e riconobbe la sua cella dalla posizione in cui aveva messo la coperta. Quando la vide apparire, lanciò uno sguardo all’orologio appeso alla parete.

In cella, le guardie gli tolsero le manette e i blocchi delle caviglie e gli ordinarono di togliersi i vestiti. Quando fu nudo, lo ispezionarono, dentro e fuori.

Poi, ci fu di nuovo e soltanto la cella. La cella e il tempo. I secondi, i minuti, le ore. In silenzio, isolato, osservato.

Sapeva che sarebbe durata ancora per un po’. Poche distrazioni, nessun piacere. Niente libertà, niente gentilezza. Giorni in gabbia, notti in gabbia. La cella, il tempo e la torre.

Esattamente come aveva previsto.

18

L’uomo che Weiss chiamava il Topo giaceva morto sull’asfalto, a pancia in giù, con il braccio destro allungato in avanti e quello sinistro piegato in modo innaturale contro il fianco. La testa era girata e si vedevano il profilo, l’orecchio a sventola, il naso affilato, un occhio aperto, fisso e vitreo, con lo sguardo spaventato che aveva avuto in vita. Era stato colpito alla pancia e il sangue aveva formato una pozza all’altezza della vita.

Weiss e l’ispettore Ketchum del dipartimento di polizia di San Francisco, in piedi alle sue spalle, lo osservavano, uno accanto all’altro, le mani in tasca.

«Okay», esordì Ketchum. «Mi stai dicendo che un assassino immaginario ha accoltellato questo disgraziato per vendicarsi di uno stupro creato dalla sua fantasia nei confronti di una donna che non è mai esistita.»

Weiss annuì. «Proprio così.»

«Ma questo poveraccio è dannatamente morto, mi sembra.»

Weiss inclinò il capo con aria incerta.

Ketchum imprecò. «Gesù.»

Era un uomo di colore piccolo e magro, dalla voce profonda, sempre carico di tensione. L’espressione generalmente accigliata cambiava solo quando si tramutava in aperta rabbia. Per quel che ne so, odiava tutto e tutti. Tranne Weiss. Weiss gli era simpatico. Almeno credo.

Fece un segno all’uomo dell’ufficio del coroner che aspettava poco distante, e questi iniziò a infilare il corpo di Wally Spender in un sacco di plastica. Weiss e Ketchum si allontanarono. L’ispettore scosse la testa per sottolineare il suo disgusto.

«Questo piccolo bastardo dalla faccia di topo non è stato neanche derubato», disse.

«In ogni caso è stato assassinato», lo incalzò Weiss. «E questo è un fatto. Non è fantasia, voglio dire: qualcuno deve pur essere stato.»

«Grazie per avermelo fatto notare», replicò ironico Ketchum mentre arrivavano in fondo al vicolo. «Meno male che aveva il tuo biglietto da visita in tasca, altrimenti non ti avrei chiamato, tu non saresti venuto e io non avrei avuto questa brillante spiegazione: ‘Qualcuno deve pur essere stato’. Come ho fatto a non pensarci?»

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