Era chiaro che sua madre aveva detto tutto ciò che aveva voluto dire su Sara Jane Tinsley. Che andasse al diavolo. Se voleva che venisse raccolto il grano, la figlia preferita l’avrebbe raccolto.
Sara Jane si precipitò fuori casa, sbattendo la porta a zanzariera lacerata dietro di sé, e afferrando un secchio in plastica. Fare il bucato e stirare era la fonte di denaro principale della madre, ma il grano, un mezzo acro, aiutava. Solo che questo era stato un anno arido, veramente arido, e molte pannocchie erano rimaste piccole. Ebbene, le voleva, le avrebbe avute, piccole o no.
Furiosa, Sara Jane raggiunse l’estremità della fila più lontana e cominciò a tirare giù tutte le pannocchie che riusciva a trovare e a gettarle nel secchio. I gambi si piegavano e tremavano con un rumore simile a quello che avrebbe fatto una trebbiatrice. Il rumore e i suoi stessi movimenti agitati le impedirono di sentire l’uomo che si stava avvicinando furtivamente dal dietro o di percepirne la presenza finché non fu troppo tardi. Con un braccio robusto e ossuto la bloccò contro il petto, con l’altro le chiuse la bocca e il naso con un panno, un panno inzuppato di qualcosa dall’odore dolciastro. Sara Jane tentò di lottare e di mordere, ma lui la sbatté a terra e la soffocò con il corpo e la mano. Lei comprese che si trattava dell’uomo con il cappello da cowboy, ma non poteva fare niente. Rapidamente, smise di lottare.
Te lo avevo detto, mamma… ti avevo detto che quegli uomini volevano prendermi…
Cominciò a girarle la testa. Poi, proprio mentre pensava di essere sul punto di vomitare, pace e oscurità la sommersero.
Ellen era sola, accoccolata nella poltrona in pelle logora nel soggiorno rivestito in legno d’abete di Rudy, un vassoio con un avocado e un panino ripieno di formaggio svizzero quasi non toccati, un bicchiere di Merlot quasi vuoto, il suo secondo, stretto in mano. Non aveva mai bevuto molto e non ricordava di averlo fatto al mattino. Ma il «documentario» sull’Omnivax che stava guardando alla televisione, messo insieme dalla campagna pubblicitaria Marquand, e la lettera che aveva nella borsetta e di cui non si era ancora occupata, avevano prodotto un livello di tensione che non si poteva non curare.
Erano passate da poco le dodici del giorno successivo al suo colloquio con Nattie ed Eli Serwanga, seguito, poche ore dopo, da un incontro con un’altra vittima della febbre di Lassa, John Gendron, un insegnante trentasettenne di Baltimora.
Era stata una corsa frenetica, aiutata dagli dei del traffico, ma Ellen era riuscita a prendere il volo da Chicago al Baltimore-Washington International Airport. La sua macchina era parcheggiata al Reagan International, alle porte di Washington, per cui aveva preso a nolo una macchina e aveva raggiunto la casa di Gendron, una modesta casa di città in via Fayette, a parecchi isolati dallo scintillante lungomare di Baltimora.
Prima di rimanere contagiato dal virus di Lassa, Gendron aveva insegnato inglese in una scuola media della città. Erano passati diciotto mesi da quel suo incontro con la morte, ma lui pensava di essere ancora troppo infermo per poter riprendere a insegnare. Il suo udito, calato, a causa della malattia, del 70 per cento in un orecchio e del 100 per cento nell’altro aveva limitato il colloquio di Ellen.
«Ero andato in Sierra Leone a trovare mia sorella che lavora come infermiera per un ente internazionale d’assistenza», aveva spiegato. «Una settimana circa dopo il mio ritorno, non riuscivo più a inghiottire nulla, nemmeno l’acqua, senza che la gola mi bruciasse. Nel giro di tre giorni la febbre mi era salita a 40,5 e dal naso e dal retto continuavo a perdere sangue.»
Gli occhi dell’uomo avevano cominciato a luccicare ed Ellen aveva capito che, per quanto gentile fosse stato a invitarla a casa sua, quella conversazione era per lui estremamente dolorosa.
«Signor Gendron, mi cacci pure, se tutto questo è troppo duro per lei», aveva detto. «Vivo abbastanza vicino da poter venire a trovarla un’altra volta.»
«No, no, sto bene. Lei mi ha promesso di dirmi su cosa sta lavorando.»
«E lo farò», aveva confermato Ellen. «Allora, verso la fine della seconda settimana ero caduto in delirio e mi hanno ricoverato. Loro… loro hanno dovuto togliermi l’intestino per evitare che morissi dissanguato. Anche così, c’è mancato poco che morissi. Sono divorziato e vivo da solo, per cui mia sorella è tornata dalla Sierra Leone e si è presa cura di me per due mesi. La colostomia è un souvenir del mio viaggio in Africa.»
Potrebbe essere il souvenir del volo di ritorno, aveva pensato Ellen. «Continui.»
«Per quanto ne so», aveva proseguito lui con voce piatta, «ho contagiato sei miei studenti, più mio figlio e uno dei suoi amici. L’amico l’ha superata, mio figlio Steven e due dei miei studenti, non sono stati altrettanto fortunati.»
Oh, no.
«Mi spiace tanto.»
«Era il mio unico figlio. Ogni giorno vorrei essere morto io e prego che ciò accada presto.»
«Ho avuto anch’io tragedie personali», aveva ammesso Ellen. «Ridare un senso alla vita è terribilmente difficile. Psicoterapia e tempo. È tutto ciò che posso dirle. Terapia e tempo e aiutare gli altri.»
«Grazie.»
Ancora una volta, Gendron aveva assicurato a Ellen che poteva continuare.
«C’è qualcosa di insolito che ricorda del volo di ritorno negli Stati Uniti?» aveva chiesto, sforzandosi di evitare domande che avrebbero potuto influenzare la sua risposta.
«È stato un volo tranquillo. Tuttavia, ho conosciuto un individuo strano sulla tratta da Freetown a Londra, se è questo che intende.»
«Proprio così.»
«Era un ingegnere americano, interessante e molto socievole. Specializzato nell’ispezionare ponti, credo abbia detto.»
Ellen aveva stretto i braccioli della sedia. «Me lo può descrivere?»
«Credo di sì, anche se la mia memoria non è più tanto buona da…»
«Faccia del suo meglio», l’aveva interrotto Ellen, decidendo di non proporgli l’esercizio di scrittura di Rudy.
«Prima di tutto, era grande. Non solo alto, ma grosso, come un giocatore di football. I capelli erano biondicci e portava occhiali spessi con una montatura pesante.»
«Nient’altro?»
«Non mi viene in mente nulla… a parte, aspetti, aveva una cicatrice, una strana cicatrice proprio sopra il labbro.»
Tombola!
Con qualche suggerimento da parte di Ellen, Gendron aveva ricordato anche di essere stato urtato dall’uomo mentre aspettavano in coda all’aeroporto di Gatwick. «Era inciampato, credo, e mi è caduto addosso. È stato come venire investiti da un treno. Siamo finiti a terra entrambi.»
Dopo avere strappato anche a Gendron la promessa del silenzio, Ellen gli aveva spiegato il suo interesse per i casi di febbre di Lassa e per l’uomo con la cicatrice. Era poi tornata al Reagan Airport dove aveva ripreso la Taurus. Era arrivata alla casetta di Rudy dopo le due del mattino e si era sentita sollevata nel vedere che non l’aveva attesa in piedi.
Ora sedeva nel soggiorno e guardava lo special sull’Omnivax, inspirando il rustico profumo del suo tabacco da pipa che aleggiava nell’aria. Il merlot stava gradualmente rinforzando la sua decisione di parlargli. Rudy era nello studio al piano superiore, riflettendo sulle liste dei passeggeri, facendo telefonate e mostrandosi come sempre una roccia di sostegno per una donna che lui considerava una buona amica, una donna che aveva appena scoperto che lui l’aveva amata, escludendo così tutte le altre, per quasi quarant’anni.
Come dirgli ciò che aveva fatto? E, cosa forse ancora più importante, quali sensazioni le aveva procurato ciò che lui aveva scritto? Era impossibile rispondere alla prima domanda senza essere pronti a rispondere sinceramente alla seconda.
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