Fecero una corsa dalla macchina all’ingresso posteriore per cercare di bagnarsi il meno possibile. Quando entrarono in casa, David accese il camino per rallegrare un po’ l’ambiente, mentre Angela riscaldava la cena che aveva già preparato. Scendendo in cantina a prendere la legna, oltre a sentire il solito cattivo odore, David notò che c’erano alcune infiltrazioni d’acqua fra le pietre delle fondamenta e si consolò pensando che, per fortuna, il pavimento era in terra battuta e avrebbe assorbito l’eccesso di umidità.
Dopo avere cenato, si mise accanto a Nikki che stava guardando la televisione. Essendo ammalata, lui e Angela erano meno rigidi sul tempo che poteva passare a guardarla. Dopo avere raccolto il coraggio necessario, durante un’interruzione pubblicitaria, David mise un braccio intorno alle spalle della figlia e mormorò: «Ho qualcosa da dirti».
«Che cosa?» chiese lei, che stava accarezzando Rusty accucciato accanto a lei sul divano.
«La tua maestra, Marjorie Kleber, è morta oggi», le disse David con dolcezza.
La bambina rimase in silenzio per qualche istante, poi guardò Rusty, facendo finta di preoccuparsi per un nodo di pelo che aveva dietro l’orecchio.
«Questo mi rende molto triste», continuò David, «soprattutto perché ero il suo medico. Sono certo che anche per te è la stessa cosa.»
«No», replicò in fretta Nikki, scuotendo la testa. Si scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e fissò di nuovo il televisore, come se fosse interessata alla pubblicità.
«Non c’è niente di male nell’essere tristi», aggiunse lui, e stava per mettersi a parlare di come ci si può sentire quando si perdono le persone che ci sono care, quando Nikki gli si gettò addosso, inondandolo di lacrime e stringendolo forte forte.
David le diede qualche colpetto affettuoso sulla schiena e continuò a parlare, cercando di rassicurarla.
Angela si avvicinò, scansò Rusty e si sedette accanto alla figlia, stringendo lei e David in un unico abbraccio. Rimasero così tutti a tre, cullandosi piano, mentre la pioggia continuava a battere contro le finestre.
Mercoledì 20 ottobre
Nonostante le proteste di Nikki, i suoi genitori la fecero rimanere a casa per un altro giorno. Considerato il brutto tempo e il fatto che stava ancora prendendo antibiotici, non volevano correre rischi. Dopo gli esercizi respiratori, l’auscultarono e furono piuttosto soddisfatti, quindi la lasciarono alle cure di Alice Doherty, che arrivò puntuale come sempre.
Nel salire in auto, David si lamentò di non poter andare in bicicletta. Non pioveva fortissimo, ma le nuvole erano basse e gonfie e dalla terra inzuppata d’acqua si levava una pesante nebbia.
Arrivarono in ospedale alle sette e mezzo. Angela si recò al laboratorio e David si diresse in corsia. Quando entrò nella stanza di John Tarlow, la trovò invasa da scale e teli che coprivano i mobili e il letto era vuoto. Quando andò a chiedere spiegazioni alla caposala, quest’ultima gli spiegò che il paziente era stato trasferito nella stanza 206.
«Come mai?» volle sapere David, sorpreso.
«Hanno voluto imbiancare la stanza. È venuta una squadra della manutenzione e ci hanno detto che dovevamo liberarla, così abbiamo spostato il signor Tarlow alla 206.»
«Che mancanza di riguardo verso il paziente!»
«Be’, non se la prenda con noi, vada a lamentarsi all’ufficio tecnico.»
Irritato, David seguì il consiglio di Janet e scese fino alla stanza del capufficio tecnico. Alla scrivania c’era un uomo più o meno della sua età che indossava una camicia da lavoro stropicciata di tela verde e calzoni della stessa stoffa. Aveva l’aria trasandata.
«Sì?» gli chiese Werner Van Slyke sollevando lo sguardo dalla propria agenda. Il viso e la voce erano completamente privi di emozione.
«Uno dei miei pazienti è stato fatto spostare dalla sua camera», disse David. «Vorrei sapere perché.»
«Se sta parlando della 216, la stanno imbiancando.»
«È evidente che la stanno imbiancando. Quello che non è evidente è il perché.»
«Abbiamo un calendario da seguire.»
«Calendario o non calendario», sbottò David, «non penso che i pazienti debbano essere disturbati, soprattutto quelli che stanno male, e i pazienti, se sono in ospedale, vuol dire che stanno male.»
«Parli con Helen Beaton se ha un problema», ribatté l’altro con la solita voce piatta e si rimise a guardare l’agenda.
Sconcertato dall’insolenza del suo interlocutore, David rimase qualche secondo sulla soglia, mentre Van Slyke continuava a ignorarlo. Alla fine si decise ad andarsene e, mentre ritornava al secondo piano, prese seriamente in considerazione la possibilità di parlarne con il direttore generale. Quando però entrò nella nuova stanza di John Tarlow si trovò a dover affrontare un problema ben più pressante: le condizioni del suo paziente erano peggiorate.
La diarrea e il vomito, che inizialmente si erano placati, ora erano ancora più violenti di prima e per di più John appariva intontito e apatico. David non capiva il perché di quei sintomi, dato che evidentemente non era disidratato, grazie alla fleboclisi.
Nonostante un esame accurato del paziente, non riuscì a trovare una spiegazione delle sue condizioni, in particolare di quelle mentali. L’unico dubbio che gli venne in mente fu che John potesse avere dimostrato un’eccessiva sensibilità al leggero sonnifero che aveva prescritto per lui, nel caso ne avesse avuto bisogno.
Nella stanza delle infermiere prese la sua cartella clinica e la consultò freneticamente, sperando di trovare fra i risultati delle analisi, arrivati nel frattempo dal laboratorio, una spiegazione e, di conseguenza, una soluzione. Dopo lo scontro del giorno precedente con Kelley era riluttante a chiedere un consulto, dato che sia l’oncologo sia lo specialista in malattie infettive non appartenevano al CMV.
Chiuse gli occhi e si sfregò le tempie, non sapendo che cosa fare. Purtroppo i risultati della coprocoltura, un test fondamentale, non erano ancora disponibili e lui non sapeva ancora se aveva a che fare con un batterio oppure no e, in caso positivo, con quale genere di batterio. Di buono c’era che, per ora, John non aveva la febbre.
Dalla cartella clinica risultava che il sonnifero gli era stato effettivamente somministrato; David, allora, lo cancellò dalle prescrizioni e richiese un’altra coprocoltura e un altro conteggio dei globuli rossi. Chiese inoltre che la temperatura di John venisse controllata ogni ora, con l’ordine esplicito di essere avvertito, se fosse salita oltre i livelli normali.
Completata l’ultima biopsia della giornata, Angela pulì il piccolo laboratorio accanto alla sala operatoria e si diresse verso la propria stanza. Aveva trascorso una mattinata proficua e piacevole e, fino a quel momento, era riuscita a evitare il dottor Wadley, anche se sapeva che prima o poi lo avrebbe incontrato e si preoccupava per come lui si sarebbe comportato.
Entrando nel suo ufficio, si accorse che la porta comunicante era socchiusa e cercò di chiuderla il più silenziosamente possibile.
«Angela!» la chiamò il dottor Wadley, facendola sobbalzare. «Venga, voglio mostrarle qualcosa di affascinante.»
Lei sospirò ed entrò. Wadley era seduto davanti al microscopio normale, non a quello didattico.
«Venga», ripeté, facendo un gesto con il braccio per sottolineare il suo invito, poi batté un dito sopra il microscopio. «Dia un’occhiata a questo vetrino.»
Lei avanzò guardinga, poi si fermò, esitante. Intuendo la sua riluttanza, Wadley si diede una piccola spinta, facendo allontanare la poltroncina dalla scrivania. Angela allora si avvicinò al microscopio e si chinò.
Prima che potesse guardarvi dentro, Wadley si spinse in avanti, l’afferrò alla vita e la fece sedere sul suo grembo, serrandole intorno le braccia.
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