Painter fermò la mano.
Nodo dello scudo.
Gli sovvennero le parole pronunciate da Klaus in punto di morte, la maledizione che aveva lanciato contro tutti loro: Morirete tutti! Strangolati, quando il nodo sarà stretto!
Painter aveva creduto che Klaus si riferisse a un cappio metaforico. E se invece avesse fatto riferimento a quel simbolo?
Quando il nodo sarà stretto.
Guardando lo stemma dei Waalenberg, Painter si mise a scarabocchiare sul retro di un fax. Ridisegnò il simbolo come se qualcuno avesse stretto il nodo, avvicinando le asole, come quando si allacciano le scarpe.
«Che fai?» chiese Lisa, materializzandosi alle sue spalle.
Preso di soprassalto, Painter strisciò la penna sul foglio, che quasi si strappò. «Buon Dio, ragazza, la smetteresti di piombarmi addosso di soppiatto in questo modo, per favore?»
Sbadigliando, Lisa si appollaiò sul bracciolo del sedile di Painter e gli diede una pacca sulla spalla. «Che indole delicata.» Lasciò la mano dov’era, chinandosi verso di lui. «Sul serio, che cosa stai disegnando?»
Painter non poté fare a meno di notare che il seno della donna gli sfiorava la guancia. Si schiarì la voce e ritornò al suo schizzo. «Stavo soltanto giocando un po’ col simbolo che abbiamo trovato sulla mano dell’assassina. Un altro dei miei agenti l’ha visto su un paio di Sonnenkönige in Europa. Due gemelli, nipoti di Baldric Waalenberg. Dev’essere importante, forse è un indizio che abbiamo trascurato.»
«O forse al vecchio bastardo piace marchiare a fuoco la sua progenie, come si fa col bestiame. A quanto pare, per lui è solo un altro tipo di allevamento e selezione.»
Painter annuì. «Mi sono ricordato di ciò che ha detto Klaus: ha parlato di un nodo che si stringe, come un segreto mai svelato.»
Finì il disegno, poi mise il nodo originale e quello stretto l’uno accanto all’altro.
Studiò i disegni e si rese conto delle implicazioni.
Lisa evidentemente notò l’alterazione del suo respiro. «Che c’è?»
Lui indicò il secondo disegno con la penna. «Non mi stupisce il fatto che Klaus fosse passato dalla loro parte. E forse questo spiega anche perché i Waalenberg si sono isolati così tanto negli ultimi anni.»
«Non capisco.»
«Non abbiamo a che fare con un nuovo nemico. È sempre lo stesso.»
Painter ripassò il centro del nodo, rivelandone il cuore segreto.
Lisa trasalì. «Una svastica.»
Painter guardò il gigante assopito e sua sorella. Sospirò. «Altri nazisti.»
Sudafrica,
ore 06.04
La serra doveva essere antica quanto la casa. Aveva vetrate piombate deformate dal sole africano, con una cornice di ferro nera che ricordava una ragnatela. All’interno, la condensa offuscava la vista dell’impenetrabile giungla oscura che circondava la struttura.
Non appena entrato, Gray fu colpito dall’umidità, che probabilmente era prossima al cento percento. La tuta di cotone leggero gli si appiccicò addosso. D’altra parte la serra non era pensata per il suo comfort: dava riparo a una profusione sfrenata di piante di tutti i tipi. L’aria profumava di centinaia di fiori. Al centro, una piccola fontana di pietra e bambù gorgheggiava pacifica. Era un bel giardino, ma Gray si chiedeva chi, vivendo in Africa, potesse avere bisogno di una serra.
Ben presto si ritrovò di fronte la risposta.
In piedi su un livello rialzato, c’era un signore dai capelli bianchi, con un paio di forbici in una mano e una pinzetta in un’altra. Con l’abilità di un chirurgo, si chinò su un bonsai, un piccolo prugno in fiore, e recise un rametto. Poi si raddrizzò con un sospiro di soddisfazione.
L’albero sembrava molto vecchio, ed era legato col filo di rame. Era carico di fiori, tutti perfettamente simmetrici, in equilibrio e armonia.
«Ha duecentoventidue anni», disse il vecchio, ammirando il proprio operato. Aveva un accento molto forte, sembrava il nonno di Heidi, gli mancava solo il panciotto. «Era già vecchia quando l’imperatore Hirohito in persona me la donò, nel 1941.»
Posò i suoi attrezzi e si girò. Indossava un grembiule bianco sopra un abito blu marina, con una cravatta rossa. Tese una mano al nipote. «Isaak, tevreden… »
Il giovane si precipitò ad aiutare il vecchio a scendere, guadagnandosi una pacca sulla spalla. Il vecchio si tolse il grembiule, recuperò un bastone nero e vi si appoggiò. Gray notò lo stemma prominente sulla corona d’argento del bastone. Una W in filigrana sormontava il familiare simbolo a forma di quadrifoglio, la stessa icona che i gemelli, Ischke e Isaak, avevano tatuata sul polso.
«Sono Baldric Waalenberg», si presentò il patriarca, guardando Gray e Monk. «Se mi farete la cortesia di unirvi a me nel salone, avremo molto di cui parlare.»
Si girò e si diresse ticchettando verso il fondo della serra. Portava appeso al collo un paio d’occhiali con una catena d’argento e un monocolo da gioielliere applicato su una lente.
Mentre avanzavano sul pavimento d’ardesia, Gray notò che la flora della serra era organizzata per sezioni: alberi e arbusti bonsai, un giardino di felci e, infine, una zona dedicata alle orchidee.
Il vecchio si accorse dell’interessamento di Gray. «Coltivo Phalenopsis da sessant’anni.» Si fermò accanto a uno stelo molto alto, con fiori di una tonalità di viola simile a un livido.
«Carina», commentò Monk, con evidente sarcasmo.
Issak lo fulminò con lo sguardo.
Il vecchio lo ignorò. «Ma l’orchidea nera mi sfugge. È il Santo Graal di chi seleziona orchidee. Io ci sono andato molto vicino, ma sotto la lente d’ingrandimento si vede ancora qualche striscia viola, invece che un color ebano compatto.»
Toccando distrattamente il monocolo da gioielliere, l’uomo proseguì.
Gray capì finalmente quale fosse la differenza tra la giungla e il vivaio: lì la natura non era una bellezza da godere, ma qualcosa da dominare. Sotto la volta della serra era tutto un recidere, reprimere e selezionare; la crescita era controllata col filo di rame per bonsai, l’impollinazione era orchestrata dalla mano dell’uomo.
Arrivati in fondo alla serra, attraversarono una porta a vetri colorati e raggiunsero un piccolo salottino con mobili di rattan e mogano, una nicchia scavata in un fianco della casa. Da lì si poteva accedere al palazzo passando per una porta a due battenti, insonorizzata con fasce di materiale isolante.
Baldric Waalenberg si accomodò su una poltrona antica, con lo schienale avvolgente.
Isaak si avvicinò a una scrivania sulla quale c’era un computer HP: lo schermo a cristalli liquidi era appeso alla parete. Lì accanto c’era una lavagna, sulla quale era stata scritta col gesso una serie di simboli. Erano rune, constatò Gray, notando che l’ultima era la Menschrune della Bibbia di Darwin.
Senza darlo a vedere, Gray le contò e le memorizzò. Cinque rune, cinque libri: era la serie completa delle rune di Hugo Hirszfeld. Ma che cosa significavano? Quale segreta verità era troppo bella per lasciarla morire e troppo mostruosa per essere rivelata?
Il vecchio posò le mani in grembo e fece un cenno a Isaak, il quale premette un tasto del computer: sullo schermo comparve un’immagine ad alta definizione. Nella giungla c’era una grande gabbia sospesa, suddivisa in due parti, in ciascuna delle quali stava raggomitolata una minuscola figura.
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