Painter doveva passarsela ancora peggio. Aveva indossato un paio di pantaloni pesanti e un paio di manopole di lana, sottraendoli a uno dei monaci morti. Ma non aveva un cappuccio per ripararsi la testa, soltanto una sciarpa legata sulla parte inferiore del viso. I suoi respiri erano nuvolette bianche nell’aria gelida.
Dovevano trovare un riparo.
Presto.
Painter porse una mano a Lisa, che, in un tratto particolarmente ripido, era finita col sedere per terra, scivolando fino a lui. Avevano raggiunto il fondo del passo. C’era una curva, incorniciata da pareti ripidissime.
Laggiù la neve fresca era già alta trenta centimetri.
Sarebbe stato difficile procedere senza racchette da neve.
Intuendo la sua preoccupazione, Painter indicò un punto su un lato dello stretto crepaccio. C’era una sporgenza rocciosa che offriva riparo dalle intemperie. Puntarono in quella direzione, avanzando a fatica tra i cumuli di neve.
Una volta raggiunto l’aggetto di pietra, fu più facile proseguire.
Lisa diede un’occhiata alle proprie spalle. Le loro orme si stavano già riempiendo di neve fresca. Entro qualche minuto sarebbero scomparse. Se da una parte ciò contribuiva sicuramente a nascondere le loro tracce a qualsiasi inseguitore, dall’altra la innervosiva. Era come se la loro stessa esistenza venisse cancellata.
«Hai idea di dove stiamo andando?» Si accorse di bisbigliare, non tanto per paura di rivelare la loro posizione, quanto perché era intimidita dalla cappa di silenzio della tormenta.
«Vagamente», rispose Painter. «Queste aree di confine sono un territorio inesplorato, in gran parte mai calpestato da un essere umano. Quando sono arrivato, ho studiato alcune immagini satellitari, ma non sono di grande utilità. Il territorio è troppo contorto, rende i rilevamenti difficili.» Proseguirono in silenzio per qualche passo, poi Painter si voltò a guardarla. «Lo sapevi che nel 1999 hanno scoperto Shangri-La, quassù?»
Lisa non riusciva a capire se stesse sorridendo dietro la sciarpa, cercando di sdrammatizzare. «La Shangri-La di Orizzonti perduti ?» Ricordava il film e il libro. Un utopistico paradiso perduto, sospeso nel tempo e nel ghiaccio dell’Himalaya.
Voltandosi nuovamente, lui continuò ad avanzare e a spiegare. «Due esploratori del National Geographic hanno scoperto una gola dalla profondità mostruosa nella catena dell’Himalaya, a poche centinaia di chilometri da qui, nascosta sotto uno sperone roccioso: un luogo non indicato nelle mappe satellitari. In fondo c’era un paradiso subtropicale. Cascate, abeti e pini, prati pieni di rododendri, ruscelli che scorrevano tra abeti rossi e tsuga. Un giardino selvatico, che pullulava di vita, circondato da neve e ghiaccio in ogni direzione.»
«Shangri-La?»
Painter scrollò le spalle. «Dimostra soltanto che la scienza e i satelliti non sempre riescono a rivelare ciò che il mondo vuole nascondere.» Ormai batteva i denti. Anche parlare significava sprecare fiato e calore. Dovevano trovare la loro Shangri-La.
Proseguirono in silenzio. La neve divenne più fitta.
Dopo altri dieci minuti, il passo proseguiva con uno stretto tornante. Girato l’angolo, l’aggetto che li aveva riparati spariva. Si fermarono a guardare, disperati. Da quel punto il percorso era più ripido e più ampio. Davanti a loro, il mondo era una cortina di neve. Le occasionali folate di vento rivelavano scorci fluttuanti di una profonda vallata.
Non era una Shangri-La.
Avevano di fronte una serie di costoni frastagliati, ghiacciati e spazzati dalla neve, troppo ripidi da attraversare senza corde. Un ruscello ruzzolava giù per quei precipizi, con una serie di imponenti cascate, ma il suo corso era puro ghiaccio, congelato nel tempo. Più in là, velata dalla neve e da una nebbia di ghiaccio, c’era una profonda gola, che da dove si trovavano sembrava senza fondo. La fine del mondo.
«Troveremo un percorso per scendere», balbettò Painter.
Puntò ancora una volta nelle fauci della tormenta. La neve superò rapidamente le caviglie, quindi i polpacci. Painter faceva da apripista.
«Aspetta», disse Lisa. Sapeva che l’uomo non sarebbe potuto andare avanti ancora per molto. L’aveva condotta sin lì, ma non erano equipaggiati per andare oltre. «Da questa parte.»
Lo guidò verso la parete rocciosa sottovento, più riparata.
«Dove…» tentò di chiedere lui, ma fu interrotto dal battere dei suoi denti.
Lei indicò un punto in cui il ruscello ghiacciato superava il costone di fronte a loro. Taski Sherpa aveva insegnato a lei e ai suoi compagni qualche tecnica di sopravvivenza. Una delle sue lezioni più importanti riguardava come trovare riparo.
Lisa sapeva a memoria i cinque posti migliori in cui cercare.
Si diresse verso il punto in cui la cascata di ghiaccio raggiungeva il loro livello. Come le era stato insegnato, cercò il punto d’incontro fra la roccia nera e il ghiaccio bianco-blu. Secondo la guida, il disgelo estivo trasformava le cascate dell’Himalaya in torrenti tumultuosi, capaci di scavare la roccia in profondità. Alla fine dell’estate la loro portata diminuiva e l’acqua si ghiacciava, spesso lasciando uno spazio vuoto alle sue spalle.
Con sollievo, Lisa constatò che quella cascata non faceva eccezione. Mandò una preghiera di ringraziamento a Taski e a tutti i suoi antenati.
Col gomito infranse uno strato di brina e aprì un varco scuro tra il ghiaccio e la parete rocciosa. Lì dietro c’era una piccola grotta.
Painter la raggiunse. «Lasciami controllare se è un posto sicuro.»
Attraversò la fessura di traverso e scomparve. Un istante dopo sbocciò una piccola luce tra il ghiaccio della cascata.
Lisa sbirciò attraverso la fessura.
Painter era a qualche passo di distanza, con la penna luminosa in mano. La puntò in ogni direzione, illuminando la piccola nicchia. «Sembra sicura. Penso che possiamo aspettare che la tormenta si plachi.»
Lisa s’infilò all’interno. Al riparo dal vento e dalla neve faceva già più caldo.
Painter spense la penna luminosa. Non avevano davvero bisogno di una fonte di luce. Sembrava che la parete di ghiaccio raccogliesse quel poco di luce diurna che la tormenta lasciava filtrare e l’amplificasse. La cascata ghiacciata scintillava e splendeva.
Quando si voltò verso di lei, gli occhi di Painter erano di un blu eccezionale, come il ghiaccio splendente. Lisa gli esaminò il volto, cercando eventuali segni di congelamento. Il vento gli aveva causato abrasioni di un rosso vivido. I lineamenti del viso rivelavano chiaramente le sue origini di nativo americano. Un abbinamento affascinante con quegli occhi blu.
«Grazie», disse Painter. «Mi sa che hai appena salvato la vita a entrambi.»
Lei scrollò le spalle, distogliendo lo sguardo. «Ti dovevo questo favore.»
Però, anche se minimizzava, una parte di lei si sentì riscaldare per il suo apprezzamento, più di quanto si sarebbe aspettata.
«Come sapevi come fare a trovare…» Le ultime parole di Painter furono soffocate da un potente starnuto. «Oh.»
Lisa si tolse lo zaino dalle spalle. «Basta con le domande. Dobbiamo riscaldarci.»
Estrasse dal suo kit medico una coperta isolante ingannevolmente sottile: il tessuto Astrolar tratteneva il novanta percento del calore prodotto dal corpo. Ma Lisa non contava soltanto su quello. Tirò fuori un radiatore catalitico, un’attrezzatura vitale nell’alpinismo.
«Siediti», ordinò a Painter, stendendo la coperta sulla roccia gelata.
Esausto, lui non protestò.
Lei lo raggiunse e coprì entrambi con la coperta, formando una sorta di bozzolo. Rannicchiatasi per bene, premette l’accensione elettronica del suo radiatore Coleman Sport Cat. L’apparecchio non produceva fiamme, ma funzionava grazie a una piccola bombola di butano che durava quattordici ore. Usato con parsimonia e a intermittenza, assieme alla coperta termica, avrebbe permesso loro di sopravvivere per due o tre giorni.
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