Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Vivien fece la domanda che più le stava a cuore.

«E il figlio?»

«Non sta più a Chillicothe. Il suo nome è Manuel Swanson. Non so dove sia ora. Ma a suo tempo aveva mostrato delle velleità artistiche.»

Sollevò il manifesto arrotolato che teneva nella mano sinistra.

«E io sono riuscito a recuperare una sua locandina.»

«Fa’ vedere.»

Durante tutto il suo discorso Russell non era riuscito a staccare gli occhi dalla strada, dove TXC60 procedeva in una specie di slalom fra le altre vetture in movimento, che rallentavano e accostavano per favorire il loro passaggio.

La sua protesta suonò energica ma non impaurita.

«Ma sei matta? Stiamo viaggiando a quasi cento miglia orarie. Ci schianteremo e faremo schiantare qualcun altro.»

Vivien alzò la voce.

«Fa’ vedere, ti ho detto.»

Forse troppo. Lo aveva già fatto una volta e se ne era pentita.

Di malavoglia Russell srotolò il manifesto. Vivien lanciò una prima occhiata e lesse d’istinto la scritta rossa che stava alla base della foto. A lettere cubitali campeggiava un nome con un aggettivo.

Il fantastico

Mister Me

Tornò a occuparsi della guida. Approfittò di un tratto sgombro da veicoli per lanciare un secondo sguardo più lungo e più preciso alla foto. E il cuore le diede un colpo così forte da farle temere che un secondo lo avrebbe schiantato.

Si trovò a mormorare un’invocazione, col desiderio di andare avanti senza soluzione di continuità.

«Dio Signore. Dio Signore. Dio Signore.»

Russell arrotolò il manifesto e lo gettò sul sedile posteriore. Nonostante il rumore lo sentì cadere a terra dietro il suo sedile.

«Che c’è Vivien? Che succede? Mi vuoi dire dove stiamo andando?»

Per tutta risposta Vivien aumentò la velocità, schiacciando l’acceleratore a tavoletta. Si erano appena lasciati alle spalle il ponte sull’Hutchinson River e la macchina procedeva sulla 95 con tutta la rapidità che il suo motore le permetteva.

Per placare l’affanno che le stava distruggendo il petto, Vivien si decise a soddisfare la curiosità di Russell, mentre ancora pregava di essersi sbagliata. Ma sapeva che non sarebbe stata esaudita.

«Joy è una comunità per tossicodipendenti. Ci sta mia nipote, la figlia di mia sorella. La figlia di mia sorella che è morta stanotte. E ci sono delle bombe.»

Vivien sentì le lacrime arrivare, spinte dal dolore finalmente espresso. E un nodo salire alla gola e spezzarle la voce. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano.

«Maledetto.»

Russell non chiese altre spiegazioni. Vivien si rifugiò nella sua acredine contro la vita per ritrovare lucidità. Dopo, quando tutto fosse finito, sapeva che quella rabbia si sarebbe trasformata in veleno, se non fosse riuscita a sputarla. Ma adesso ne aveva bisogno, perché era diventata la sua stessa forza.

Quando arrivarono a Burr Avenue, Vivien rallentò e tolse il lampeggiante, per non essere preceduta da luci e sirene. Lanciò uno sguardo a Russell. Stava seduto in silenzio al suo posto, senza timore e senza invadere quello che per il momento era uno spazio riservato solo a lei. Lo apprezzò moltissimo. Era un uomo che sapeva parlare ma soprattutto capiva quando era il caso di tacere.

Imboccarono la strada sterrata che portava a Joy. Contrariamente alle altre volte, non portò la Volvo fin nel parcheggio. Accostò sulla destra, in una piazzola protetta alla vista da un gruppo di cipressi.

Vivien scese dalla macchina. Russell la imitò.

«Aspettami qui.»

«Nemmeno per sogno.»

Quando vide che era determinato e che per nessuna ragione al mondo sarebbe rimasto in attesa presso l’auto, Vivien si rassegnò. Tirò fuori la pistola e mise il colpo in canna. Quel gesto per lei abituale, quel gesto che era la sua sicurezza, fece passare un’ombra sul viso di Russell. La rimise nel fodero.

«Stai dietro a me.»

Vivien si avvicinò alla casa seguendo un percorso alternativo alla strada che terminava nel cortile. Attraverso i cespugli, nascosti dalla vegetazione, arrivarono sul fronte della costruzione costeggiando il giardino. Vivien vide apparire la facciata familiare di Joy e provò una fitta di angoscia. Ci aveva portato sua nipote piena di fiducia. E adesso, quella casa dove tanti ragazzi stavano trovando una nuova speranza di vita, poteva trasformarsi da un momento all’altro in un luogo di morte. Aumentò il passo e la cautela. Vicino alla costruzione c’erano due ragazzi seduti su una panchina.

Vivien vide che erano Jubilee Manson e sua nipote.

Restando al riparo dei cespugli, si sporse e agitò un braccio per richiamare la sua attenzione. Non appena ci riuscì, invocò il suo silenzio portandosi il dito indice davanti alla bocca.

I due ragazzi si alzarono e la raggiunsero. Il suo gesto imperioso e il suo atteggiamento fecero d’istinto abbassare la voce a Sundance.

«Che c’è zia, che succede?»

«Stai in silenzio e ascoltami. Comportati in un modo normale e fai quello che ti dico.»

Sua nipote capì subito che non si trattava di uno scherzo. Vivien ritenne opportuno estendere le istruzioni anche all’altro ragazzo.

«Fate quello che vi dico, tutti e due. Radunate tutti i ragazzi e andate il più lontano possibile dalla casa. Mi avete capito? Il più lontano possibile.»

«Va bene.»

«Dov’è padre McKean?»

Sundance indicò l’abbaino.

«Nella sua camera, con John.»

«Oh, no.»

Come per imprimere forza a quella istintiva esclamazione, inatteso e secco, dalla casa giunse il rumore inconfondibile di uno sparo. Vivien si alzò di scatto in piedi. Nella sua mano apparve la pistola, come se i due movimenti fossero per natura collegati fra loro.

«Andate via. Correte più che potete.»

Vivien corse veloce verso la casa. Russell la seguì. Sentiva i loro passi scricchiolare sulla ghiaia e in quel momento le sembrò un rumore insostenibile. Superò la porta a vetri e si trovò davanti un gruppo di ragazzi che guardavano verso la sommità delle scale, da dove era arrivato lo sparo.

Facce interdette. Facce curiose. Facce spaventate nel vederla entrare con la pistola puntata. Nonostante la conoscessero, Vivien ritenne opportuno qualificare la sua presenza in un modo che in quel momento ispirasse loro fiducia.

«Polizia. Ci penso io. Voi tutti fuori e lontano dalla casa. Presto.»

I ragazzi non se lo fecero ripetere. Uscirono di corsa, con i visi spaventati. Vivien sperò che fuori Sundance avesse la forza e il carisma per calmarli e per trascinarli con sé al sicuro.

Si avviò su per le scale, tenendo la pistola puntata.

Russell era dietro di lei, Russell era con lei.

Gradino dopo gradino arrivarono al primo piano, quello dove c’erano le camere dei ragazzi. Sul pianerottolo non c’era nessun giovane.

Probabilmente erano tutti fuori per le attività giornaliere, altrimenti ci avrebbe trovato qualcuno attirato del rumore dello sparo. Si affacciò alla finestra e vide un gruppo di ragazzi correre lungo la strada e sparire alla vista.

Il sollievo non le fece abbassare il livello di guardia.

Tese l’orecchio ad ascoltare. Nessuna voce, nessun lamento. Solo l’eco di quello sparo che sembrava una presenza ancora viva nella tromba delle scale. Vivien procedette oltre e imboccò la rampa che portava all’abbaino.

In alto, alla fine dei gradini, si indovinava una porta aperta.

Ci arrivarono con il silenzio dei gatti e il respiro delle loro prede.

Quando furono sul pianerottolo, Vivien si appoggiò un istante con le spalle al muro. Prese un lungo respiro e scivolò dentro la stanza con la pistola puntata.

Quello che vide la fece inorridire e in un attimo reagire. Padre McKean era steso a terra con un colpo d’arma da fuoco in mezzo alla fronte. Gli occhi aperti fissavano come stupiti il soffitto. Dietro la sua testa una chiazza di sangue si allargava sul pavimento. John era seduto su uno sgabello e la guardava con occhi vuoti, stringendo in mano una pistola.

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