— Sinistra, sinistra, uno, due, tre! — urlava disperatamente l’istruttore, un giovane con l’uniforme militare tutta perfetta, che marciava insieme a un plotone di uomini che non mi sembravano avere tutta ’sta gran voglia di esercitarsi.
— Nicolai, puoi entrare, figliolo! — mi ha chiamato una voce maschile molto grezza, che nonostante la gentile e quasi dolce tonalità aveva qualcosa di falso, una cattiva melodia che si sentiva in sottofondo.
Mi sono avvicinato alla porta, ho bussato chiedendo il permesso di entrare.
— Avanti, figliolo, avanti! — mi ha detto con la voce sempre piena di amicizia e buona un uomo grosso e forte, che stava seduto davanti a un’enorme scrivania.
Sono entrato, ho chiuso la porta e ho fatto qualche passo verso di lui, poi mi sono fermato di colpo.
Il Colonnello aveva una cinquantina d’anni ed era molto robusto. La testa, rasata a zero, era segnata da due lunghe cicatrici. L’uniforme verde gli stava stretta, il suo collo era talmente largo che il colletto della giacca era tutto tirato, come se stesse per strapparsi. Aveva mani così grosse che le unghie quasi non si vedevano, tanto affondavano nella carne. Un orecchio spaccato rivelava in lui un professionista di lotta sportiva. La faccia era come copiata dai manifesti sovietici di propaganda militare della Seconda guerra mondiale: linee grezze, naso dritto e spesso, occhi grandi e decisi. Sul petto, a destra, una decina di medaglie in fila.
«Gesù sia con me, questo è peggio di uno sbirro…» Io già stavo immaginando come poteva finire il nostro incontro. Non sapevo da dove cominciare, mi sembrava che non avevo nessuna possibilità di riuscire a esprimere ciò che volevo esprimere davanti a uno come lui.
Improvvisamente, interrompendo i miei pensieri, lui ha cominciato a parlare per primo, guardando una cartella che somigliava a quelle in cui i poliziotti tengono le informazioni riservate sui criminali.
— Leggo io la tua storia, mio caro Nicolai, e mi piaci sempre di più. A scuola non sei andato alla grande, diciamo che non ci sei quasi andato, però ti allenavi in quattro diverse sezioni sportive… Bravo, anch’io ho fatto tanto sport da giovane, studiare serve agli zucconi, i veri uomini fanno sport, si preparano a combattere… Hai fatto lotta, nuoto, maratona e anche tiro a segno… Bravo, sei un ragazzo molto preparato, credo che avrai un buon futuro nell’esercito… C’è un unico neo. Dimmi, perché hai avuto due condanne? Hai rubato? — mi guardava dritto negli occhi e se avesse potuto mi avrebbe guardato nel cervello.
— No, non ho rubato nulla, io non rubo alla gente… Ho picchiato due volte delle persone, mi hanno processato per «tentato omicidio con gravi conseguenze»…
— Fa niente, non ti preoccupare… Anch’io da giovane facevo le risse, ti capisco benissimo! Gli uomini hanno bisogno di prendersi il loro spazio nel mondo, di definire se stessi, e il modo migliore è la rissa, è li che si vede chi vale qualcosa e chi non vale neanche uno sputo…
Mi parlava come se stesse per darmi un premio. Io ero indeciso, non sapevo più che cosa dire e soprattutto come fare a spiegargli che non avevo nessuna intenzione di fare il servizio militare.
— Senti, figliolo, non m’importa niente del tuo passato in carcere, dei processi penali e di tutto il resto, per me sei un bravo ragazzo, che Cristo ti benedica, e ti darò una mano perché mi stai simpatico. Io qui ho tutta la tua vita, scritta da quando hai cominciato a frequentare la scuola… — ha posato la cartella sul tavolo e l’ha chiusa, annodando i due nastri sul fianco. - Ti darò due possibilità di scelta, cosa che faccio solo in casi eccezionali, alle persone che mi stanno proprio a cuore. Ti posso mandare nella guardia costiera, alla frontiera con il Tagikistan: farai carriera, e se ti piace arrampicarti sulle montagne quel posto fa per te. Altrimenti ti posso mandare nei paracadutisti, una scuola per professionisti: diverrai sergente dopo sei mesi e farai carriera anche H, con il tempo potrai anche entrare nelle forze speciali, nonostante il tuo passato. L’esercito ti darà tutto: stipendio, casa, amici e un’occupazione al tuo livello. Allora che mi dici, dove vuoi andare?
Mi sembrava di ascoltare il monologo di un matto, diceva cose che per me non avevano nessun senso. L’esercito che mi dava tutto quello che io avevo già: come potevo spiegargli che io non avevo bisogno di un’occupazione al mio livello, né di amici, о di uno stipendio, di una casa…
Mi sentivo come quando sali sul treno sbagliato e realizzi di colpo che non c’è modo di farlo tornare indietro.
Ho preso un po’ d’aria nei polmoni e ho tirato fuori la mia risposta:
— Sinceramente, signore, io voglio tornare a casa mia!
Lui è cambiato in un attimo. La sua faccia è diventata rossa, come se un uomo invisibile lo stesse strangolando. Le mani si sono chiuse a pugno e gli occhi hanno assunto una strana sfumatura, qualcosa che poteva lontanamente somigliare al cielo prima di una tempesta.
Ha preso la mia cartella personale e me l’ha tirata in faccia. Ho fatto in tempo a mettere le mani davanti, per parare il colpo. La cartella è finita sulle mie mani, si è aperta e i fogli si sono sparsi per tutta la stanza, sul tavolo, sul davanzale della finestra, sul pavimento.
Io stavo fermo e immobile come una statua. Lui continuava a guardarmi con odio. Poi improvvisamente ha cominciato a urlare con una voce terribile, che subito mi è sembrata la sua vera voce:
— Disgraziato! Vuoi marcire nella merda? Allora ti farò marcire nella merda! Ti mando dove non farai neanche in tempo a tirarti giù i pantaloni da quanto ti cagherai addosso, e ogni volta che ti succederà ricordati di me, ingrato! Vuoi andare a casa? Allora da oggi la tua casa sarà la brigata dei sabotatori! Li ti insegneranno che cos’è veramente la vita!
Mi urlava addosso, e io stavo li come un palo, senza muovermi, mentre dentro di me ero completamente svuotato.
Era meglio prendere le botte dagli sbirri, almeno lì sapevo benissimo dove si andava a finire, invece in questa situazione tutto mi era ignoto: avevo un’ansia enorme, perché non sapevo niente di militari, non capivo perché dovevo cagarmi addosso e soprattutto non riuscivo a ricordarmi chi erano i sabotatori…
— Fuori, fuori da qui! — mi ha indicato la porta.
Senza salutarlo ho girato i tacchi e sono uscito dal suo ufficio. Fuori mi aspettava un soldato, che mi ha fatto un saluto militare.
— Sergente Glasunov! Seguitemi, compagno! — ha detto con una voce che aveva lo stesso suono del carrello di un Kalasnikov quando manda in canna la carica.
«Un cane pulcioso è il tuo compagno», ho pensato io, ma ho detto con tono umile:
— Chiedo scusa, signor Sergente, posso usare i servizi?
Lui mi ha guardato con un’aria strana, ma non mi ha detto di no.
— Certo, giù per il corridoio e poi a destra!
Ho fatto tutto il giro, lui mi ha seguito e quando sono entrato in bagno è rimasto fuori ad aspettarmi.
Nel bagno sono salito sulla finestra in alto, e dato che non aveva le sbarre sono saltato giù senza problemi. Fuori, nel giardino dietro l’ufficio, non c’era nessuno.
«Che ’sto manicomio bruci, io me ne vado a casa…»
Pensando questo e altre cose simili ho cominciato a camminare verso l’uscita dalla base. Li la guardia mi ha bloccato. Era un soldato giovane, forse come me, molto magro e con un occhio leggermente strabico.
— Documenti!
— Non ce li ho con me, sono venuto a trovare un amico…
Il soldato mi ha guardato con sospetto.
— Mostra il tuo permesso per lasciare la base!
A quelle parole ho perso l’anima, che mi è caduta tra i piedi. Ho deciso di fare lo scemo:
— Ma che permesso, cosa dici, apri ’sta porta, devo uscire… — Sono andato verso la porta, superando il soldato, lui mi ha puntato il mitra addosso, urlando:
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