— Mei, tieni il becco chiuso, altrimenti ti spacco il martel lo in testa… — ho detto cominciando a remare piano, per non causare tanto rumore.
Mei era tutto concentrato; seduto in mezzo alla barca, teneva il martello con entrambe le mani, come se avesse paura che quello scappava via.
Una volta arrivati a metà del laghetto, ho tirato fuori una vecchia pila subacquea. Ho acceso la luce e piano piano l’ho fatta scivolare giù, sporgendomi dal bordo della barca. La luce sott’acqua faceva un bell’effetto, si spargeva per una decina di metri in profondità, si vedevano tanti piccoli particolari, pesciolini che circondavano la pila facendo una specie di giro d’onore.
Mei stava sopra di me, pronto con il martello. Aspettava il mio segnale.
Di solito l’arrivo del siluro si manifestava con una grande ombra nera che saliva dal fondo e andava verso la luce. Non appena si vedeva l’ombra bisognava muovere immediatamente la pila: farla salire piano, senza far rumore, in modo che il siluro la seguisse ma senza mai raggiungerla. Quando la lampada arrivava in superficie e usciva dall’acqua era il momento culminante: la persona col martello doveva colpire con tutta la sua forza li, dove poco prima c’era la lampada, per centrare in pieno il siluro. Se tardavi un momento, se il siluro riusciva a toccare la lampada, subito ridiscendeva giù, perché i siluri sono molto vigliacchi e hanno paura di qualsiasi contatto con gli oggetti che non conoscono. Quindi, per pescare il siluro con questa tecnica, era importante muoversi in perfetta sintonia.
Guardavo l’acqua con attenzione, e a un certo punto ho visto un’ombra salire dal fondo, così ho cominciato ad alzare la pila, tirando piano la corda. Mei, dietro di me, ha sollevato il martello, pronto a colpire.
Non avevo dubbi: era chiaramente un siluro, veniva su velocissimo. Dovevo solo recuperare la pila in tempo.
Quando ormai l’avevo tirata su quasi tutta, ed era rimasta solo una piccola parte in acqua, Mei ha buttato giù il martello con una violenza tale che ho sentito un fischio nell’aria, come se vicino alle mie orecchie fosse passata una pallottola.
— Cristo! — ho urlato, e ho fatto appena in tempo a spostare le mani dalla pila che il martello di Mei l’ha colpita con una forza brutale. Quella si è spaccata, e la luce si è subito spenta. Nel buio ho sentito un leggero sospiro di Mei:
— Ma cazzo, che pesce stupido, pensavo che saliva più veloce…
Stava ancora sopra di me, con il martello in mano. Io mi sono alzato in piedi, ho preso un remo e senza dire niente gli ho dato una botta sulla schiena.
— Perché? - mi ha chiesto lui impaurito, indietreggiando verso la poppa della barca.
— Ma porca puttana, Mei, sei un imbecille! Che cazzo tiri martellate sulla pila?
Dalla riva ho sentito le voci di Gagarin, Gigit e Besa.
— Che succede? Siete impazziti? — chiedeva Gagarin.
— Che vuoi che succeda, è solo che il pesce è troppo grosso, non riescono a caricarlo in barca, — ha sottolineato con ironia Gigit, che sapeva perfettamente che quel deficiente di Mei doveva aver sputtanato come al solito la pesca.
— Ehi, Kolima! — ha urlato Besa. - Puoi ammazzarlo subito, tanto nessuno di noi ha visto niente, dopo racconteremo che è annegato da solo.
Io ero arrabbiato ma nello stesso momento la situazione mi faceva ridere.
— Accendi ’sto motore, torniamo a riva… — ho detto a Mei con tono cattivo.
— Non vuoi fare un altro giro? — mi ha chiesto con un certo senso di umiliazione nella voce.
L’ho guardato: la sua faccia nel buio sembrava appartenere a un demonio. Gli ho detto sorridendo:
— Ah si, ancora un giro? E con quale pila lo facciamo, ’sto cazzo di giro?
A riva, tutti ridevano.
Quando siamo arrivati, Besa, che scherzava sempre in un modo tutto suo, ha guardato dentro la barca e ha confermato:
— Proprio come pensavo, fratelli! Questi due hanno mangiato tutto il pesce da soli! E per non condividerlo con noi, lo hanno persino mangiato crudo!
E tutti giù a ridere come dei matti. Rideva anche Mei, so lo io ero un po’ triste, perché sentivo che stava per accadere qualcosa di nuovo nella mia vita, avevo addosso una specie di aria di cambiamento.
Abbiamo fatto una bella festa. Gli altri avevano pescato dei siluri grandi, li abbiamo puliti e preparati per cuocerli in terra. Mi sembravano tutti un po’ strani, però, come se fossero consapevoli che stavamo per attraversare un periodo particolare che ci avrebbe cambiati per sempre. Si parlava di cose passate, ognuno raccontava episodi dell’infanzia e gli altri ridevano о stavano in silenzio, rispettando l’atmosfera che si creava dal racconto.
Siamo stati intorno al fuoco tutta la notte, fino all’alba, a guardare come le scintille e i pezzi di cenere diventati polvere si alzavano nell’aria, mischiandosi con le leggere sfumature del mattino che stava portando un altro, nuovo giorno.
Io ridevo e raccontavo anch’io qualche storia, ma ero pieno di un sentimento nuovo, paragonabile a una triste nostalgia. Mi sentivo come se avessi davanti a me un grande vuoto verso il quale dovevo fare il primo passo, e per l’ultima volta potessi guardare indietro, per conservare nella memoria quanto di più bello о più importante stavo per lasciarmi alle spalle.
Dopo aver bevuto il vino e mangiato e parlato fino all’alba, sono andato dormire nel bosco. Ho preso una coperta dalla mia barca, me la sono messa addosso e sono partito verso i cespugli, dove si sentiva una freschezza nell’aria che dava sollievo. I miei amici erano sparsi in giro, qualcuno stava dormendo davanti alle braci quasi spente, Mei era sdraiato in mezzo alla stradina che portava al laghetto dove avevamo lasciato la barca: era un sentiero tutto infangato, ma lui dormiva come morto, abbracciato a un remo. Besa girava con una bottiglia vuota e chiedeva ai ragazzi se qualcuno sapeva dov’erano le scorte. Nessuno gli rispondeva, non perché non sapevano dov’erano, ma semplicemente perché erano tutti in uno stato disastroso.
Mentre camminavo avvolto nella mia coperta, ho provato un senso di disgusto, mi ricordo che anche se ero ubriaco e camminavo storto, pensavo con assoluta lucidità che eravamo un branco di miserabili ubriaconi, capaci solo di piantare grane e rovinarsi.
Appena mi sono sdraiato a terra, mi ha preso il sonno. Mi sono svegliato solo quando ormai era già sera, e cominciava a scendere il buio. I miei amici gridavano il mio nome. Ho aperto gli occhi e sono rimasto lì, senza muovermi; sentivo ancora più forte della notte precedente che stava davvero per capitare qualcosa nella mia vita. Non volevo alzarmi, volevo restare nei cespugli.
Quando siamo tornati a casa, ho fatto la sauna. Ho acceso la stufa e bruciato un po’ di legna, dopo ho preparato i rami secchi di quercia e li ho messi nell’acqua calda per utilizzarli poi nel massaggio. Ho mischiato l’estratto di pino con l’essenza di tiglio e ho messo il tutto vicino alla stufa, per impregnare l’aria che avrei respirato. Mi sono preparato due litri di tisana di rosa canina, tiglio, menta e fiori di ciliegio. Ho passato la giornata a rilassarmi nella sauna, sdraiato nudo sulle panche di legno che mi cuocevano piano. Circondato da quel vapore aromatizzato, ogni tanto bevevo la tisana caldissima a grandi sorsi, senza accorgermi di quanto bruciava.
La notte ho dormito privo di sensi, come se fossi caduto nel vuoto. Il giorno dopo mi sono svegliato e sono uscito di casa, ho aperto la cassetta della posta per vedere se c’era qualcosa e ho trovato un piccolo bigliettino di carta bianca con una riga rossa che lo attraversava da un angolo all’altro. Lì c’era scritto che l’ufficio militare della federazione russa mi chiedeva di presentarmi per accertamenti, munito di documenti personali. Aggiungevano che era la terza e ultima volta che mi mandavano quell’invito, e che se non mi fossi presentato entro tre giorni mi aspettava una condanna penale per, letteralmente, «rifiuto di pagare il debito con la patria sotto forma di servizio militare».
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