Николай Лилин - Сибирское воспитание

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Сибирское воспитание: краткое содержание, описание и аннотация

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В 1938 году по приказу Иосифа Сталина из Сибири в приднестровский город Бендеры ссылают общину урок. Урки — это не обычные воры или бандиты, а древний сибирский клан благородных преступников, фактически отдельная малая народность. Они живут в строгом соответствии с собственным моральным кодексом, в котором, в частности, говорится, что настоящие урки обязаны презирать власть, какой бы она ни была, царской, коммунистической или капиталистической. Урки грабят сберкассы, товарняки, корабли и склады, но живут очень скромно, тратя награбленное лишь на иконы и оружие. Они зверски расправляются с милиционерами, но всегда приходят на помощь обездоленным, старикам и инвалидам. Чуть ли не с пеленок учатся убивать, но уважают женщин.
В 1980 году в одной из наиболее авторитетных семей этой общины рождается мальчик Николай (позже ему дадут прозвище Колыма). Книга написана от его лица. На обложке говорится, что это автобиография, а Николай Лилин — «потомственный сибирский урка». Первое оружие, первая сходка, первая отсидка, парочка убийств, гибель друзей, вторая отсидка, обучение ремеслу тюремного татуировщика — вот и вся канва.

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A diciotto anni stavo per ottenere il diploma da istruttore di yoga, ma non mi piaceva come erano gestite le cose nella mia scuola, spesso litigavo con l’insegnante, che mi diceva che ero un ribelle e non mi buttava fuori solo perché tanti ragazzi erano dalla mia parte.

Quell’insegnante sfruttava molti allievi, ad esempio gli faceva tenere la contabilità pagandoli due soldi, e poi giustificava tutto con strani discorsi legati alla filosofia yoga, ma secondo me opportunistici. Io sopportavo tutto questo solo perché avevo bisogno di prendere quel diploma che mi avrebbe dato la possibilità di continuare gli studi in qualsiasi università governativa, e in questo modo evitare il servizio militare obbligatorio. Sognavo di aprire una mia scuola sportiva e di insegnare yoga alla gente della mia città.

Sognavo, appunto. Perché poco prima della fine degli studi è successo un fatto molto brutto: un ragazzo che faceva yoga con noi è morto d’infarto.

Molte persone che fanno yoga credono in cose lontane dalla realtà. L’insegnante raccontava sempre di gente che dopo anni di esercizi si metteva a volare, si trasformava in varie forme vitali, e diceva un mucchio di altre sciocchezze che io non ascoltavo mai, lasciando il posto agli altri del mio gruppo più interessati a quegli argomenti. Tra questi c’era anche Sergeij.

Aveva problemi di cuore fin dalla nascita, doveva ricevere cure mediche, essere seguito dai dottori, ma il nostro insegnante gli aveva fatto credere che il suo problema cardiaco poteva essere risolto con l’aiuto degli esercizi. Sergeij credeva davvero che la sua grave cardiopatia poteva essere curata cosi. Tante volte ho cercato di spiegargli che lo yoga non era affatto in grado di guarire nessuna malattia seria, ma lui non mi voleva ascoltare, diceva sempre che era solo questione d’esercizio.

Un giorno Sergeij è andato a un grande raduno delle scuole di yoga in Ungheria, e al ritorno, sul treno, ha avuto un infarto ed è morto. Ci sono stato male, niente di pili, non ero molto legato a lui e non eravamo grandi amici, però secondo il mio modo di vedere la sua morte era completamente sulla coscienza del nostro insegnante.

E finita che io ho detto all’insegnante tutto quello che pensavo, e abbiamo litigato. Lui mi ha espulso dalla scuola, così il diploma non l’ho avuto: al posto del diploma d’istruttore mi hanno dato una specie di attestato di partecipazione che mi permetteva di esercitare alcune discipline in pubblico. Insomma, una presa in giro.

Tutto questo è successo in primavera, quando la Transnistria fioriva e sembrava una sposa vestita di bianco, tutta piena di sapori e freschezze.

Sono stato fermo un periodo a riflettere su quello che era successo, poi sono andato a trovare mio nonno Nikolaj nella Taiga. Andavamo insieme a caccia, costruivamo le reti e i labirinti per catturare i pesci di fiume, facevamo la sauna e parlavamo tanto della vita.

Nonno Nikolaj viveva da solo nel bosco da quando aveva ventiquattro anni, e aveva una saggezza tutta sua. Mi faceva bene stare con lui in quel periodo.

Quando sono tornato in Transnistria ho organizzato una grande festa sul fiume, con gli amici, per festeggiare il mio compleanno ormai passato da qualche mese. Abbiamo preso dieci barche, le abbiamo riempite di bottiglie di vino, del pane che faceva la nonna di Mei e di attrezzi per la pesca, poi siamo partiti controcorrente, per raggiungere un posto che si chiamava «Grande Goccia».

Quel posto era famoso per la sua bellezza e la sua tranquillità, e si trovava a una cinquantina di chilometri da noi. Li il fiume si allargava e a tratti formava tanti piccoli laghetti attaccati l’uno all’altro, dove l’acqua era calda e ferma. La corrente non arrivava quasi, raggiungeva quella zona solo quando il fiume era in piena, a marzo e fino a metà aprile, nel periodo delle alluvioni. Tanti pesci, soprattutto i siluri, si fermavano lì, e noi andavamo a prenderli. Uscivamo di notte con le barche e accendevamo la pila grande, appoggiandola all’acqua: attirati dalla luce i siluri venivano in superficie, e allora li ammazzavamo con una specie di martello di legno dal manico lungo, fatto apposta per quel tipo di pesca. Uno teneva la pila mentre un altro era pronto a colpire con il martello, l’importante era fare tutto in silenzio, perché il minimo rumore о movimento spaventava i siluri e poi per farli tornare di nuovo a galla ci volevano come minimo un paio d’ore. Io pescavo con Mei, perché nessun altro voleva pescare con lui, dato che non riusciva mai a stare zitto nei momenti decisivi.

La cosa fondamentale era non permettergli di dare le martellate ai siluri: Mei era molto forte ma poco preciso, e una volta era successo che aveva mancato il siluro, colpendo però il suo compagno di pesca, il nostro amico Besa. Gli aveva spaccato il braccio, e da quel giorno nessuno voleva più Mei come compagno. Tutti lo evitavano, trovavano delle scuse, gli dicevano:

«Non ti offendere, ma io e lui avevamo già stabilito prima di stare insieme, quindi trovati un altro compagno…»

Visto che nessuno lo voleva, di solito lo prendevo io con me, a mio rischio. Del resto ero l’unico che poteva al momento giusto metterlo in riga.

Abbiamo fatto un bel viaggio sul fiume fino alla Grande Goccia, il tempo era splendido, l’acqua sembrava benedetta dal Signore, non faceva nessuna resistenza, anche se andavamo controcorrente. Il motore della mia barca quel giorno funzionava benissimo e non si è fermato neanche una volta: insomma, tutto era perfetto, come su una cartolina.

Appena arrivati abbiamo fatto pranzo, io ho esagerato un po’ con il vino, e quindi sono diventato troppo buono, più del solito, cosi per l’ennesima volta ho accettato di fare coppia con Mei, che era felice non lo lasciassimo sulla riva da so lo come spesso succedeva.

Ero talmente rilassato che gli ho permesso di tenere il martello. «Permesso» non è la parola giusta, diciamo che lui si è seduto sulla mia barca e senza chiedere niente ha preso in mano il martello, guardandomi come se niente fosse. Io non ho detto niente, gli ho fatto solo vedere il pugno, per fargli capire che se sbagliava rischiava grosso.

Siamo partiti per il nostro laghetto. Ogni barca entrava in un laghetto tutto suo: bisognava essere completamente so li altrimenti, cacciando i siluri nello stesso lago, le altre barche sarebbero rimaste senza preda perché i pesci con il rumore del colpo si sarebbero nascosti sul fondo.

La notte era bella, c’erano tante stelle in cielo e nel mezzo una leggera sfumatura bianca che brillava e ondeggiava, sembrava qualcosa di magico. Lontano si sentiva il rumore del vento che passava sui campi, e ogni tanto il suo fischio lungo e sottile arrivava vicino, come se stesse passando in mezzo a noi. L’odore del fiume si mischiava a quello del bosco e cambiava sempre, sembrava di sentire le foglie di acacia e di tiglio, distinte, e poi quello del muschio in riva al fiume. Le rane cantavano le loro serenate in coro, ogni tanto qualche pesce si alzava in superficie e produceva un bel suono, una specie di spalsh! nell’acqua. A un tratto dal bosco sono usciti tre piccoli cervi reali per abbeverarsi: facevano rumore con la lingua e dopo starnutivano, come fanno i cavalli.

In quell’incanto io ero come sciolto, momenti come quel li per me erano fra i più preziosi nella vita, e se mi avessero chiesto cos’è il paradiso io senza dubbio potevo dire che era un momento simile che dura per sempre.

L’unica cosa che m’impediva di salire con tutti i miei sensi all’irraggiungibile altezza celeste era la presenza di Mei: non appena lo guardavo mi riempivo di nuovo di pesanti sensi di realtà, e capivo che finché quel soggetto — quella specie di condanna che per via del mio destino dovevo sopportare — continuava a starmi accanto, io non potevo liberarmi completamente dalle mie grezze spoglie umane.

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