Yrsa Sigurðardóttir
Il cerchio del male
Dedico questo romanzo all’amato Oli.
Un grazie speciale ad Harald Schmitt, che mi ha prestato il suo nome e mi ha permesso di farsi uccidere.
Tryggvi, il custode dell’edificio, si guardò attorno perplesso. Che stava succedendo? Attraverso il cicaleccio delle addette alle pulizie dall’interno della costruzione gli giungeva un suono bizzarro, in un primo momento soffocato, poi sempre più distinto. Tryggvi fece segno alle donne di tacere e tese le orecchie. Le donne si guardarono e due di esse si fecero il segno della croce. Il custode posò la tazzina del caffè e si avviò verso i corridoi.
Tryggvi aveva assaporato il breve momento di solitudine precedente al loro arrivo aspettando con pazienza i primi sorsi mattutini seduto accanto alla caffettiera. In qualità di custode e responsabile dello staff delle pulizie dell’Istituto Arni Magnusson, che ospitava anche gli uffici del dipartimento di Storia dell’Università d’Islanda, per più di trent’anni aveva vissuto di persona tutte le profonde trasformazioni sociali di ciascun periodo. All’inizio tutte le addette alle pulizie erano islandesi e capivano ogni parola rivolgesse loro. Ora invece, essendo immancabilmente extra-comunitarie, era costretto a comunicare con loro per mezzo di puri e semplici gesti, tanto che, prima dell’arrivo del corpo docente e degli studenti, Tryggvi immaginava di essere improvvisamente piombato a Bangkok o a Manila.
Non appena il caffè era stato pronto, Tryggvi si era avviato con la tazzina in mano verso la finestra dell’edificio ancora deserto, e si era messo a contemplare l’area universitaria ammantata di bianco: il freddo polare faceva scintillare la coltre nevosa. Il silenzio era completo, un’atmosfera perfetta per l’imminente festività natalizia. A un certo punto Tryggvi aveva visto arrivare un’auto nel parcheggio sottostante. Addio allo spirito natalizio, pensò fra sé e sé. Aveva seguito con lo sguardo il conducente scendere, chiudere la portiera e avviarsi verso l’edificio, quindi aveva tirato giù la tendina e si era allontanato dalla finestra.
Aveva sentito l’eco lontana del rumore provocato dall’apertura del portone. Tra docenti, assistenti, lettori, segretarie o chiunque altro, la persona con cui aveva instaurato rapporti peggiori era Gunnar Gestvik, che continuava a lamentarsi del suo operato. Il custode non sopportava la sua arroganza e, in sua presenza, si sentiva sempre un po’ a disagio. All’inizio dell’anno accademico quel professore di Storia aveva accusato le donne delle pulizie di avergli rubato un vecchio articolo sugli eremiti irlandesi in Islanda. Fortunatamente il dattiloscritto venne ritrovato e il caso chiuso. Ma da quel giorno Tryggvi aggiunse all’odio il disprezzo: per quale assurdo motivo delle lavoranti asiatiche avrebbero dovuto sottrargli quel benedetto articolo sugli eremiti medievali? Tryggvi stesso non aveva il benché minimo interesse per gli scritti del professore. A suo parere non erano stati altro che infami attacchi contro innocenti incapaci di difendersi.
Quando poi Gunnar era stato eletto direttore del dipartimento di Storia, le cose si erano ancor più complicate. Non appena insediato, quell’individuo si era subito messo a discutere con il custode di inevitabili e imprescindibili cambiamenti, come l’assurda pretesa che alle addette alle pulizie venisse imposto di tacere durante l’orario di lavoro. Tryggvi aveva cercato inutilmente di far notare a quel pallone gonfiato che il loro vociare non disturbava affatto, dato che, comunque, nessuno era presente nell’edificio quando pulivano. Eccetto Gunnar, ovviamente. Per quale motivo quell’uomo si sentiva obbligato a presentarsi al lavoro ogni mattina addirittura prima ancora che gli autobus cominciassero il servizio? Improbabile che ci fosse cosi tanto da fare o che la gente comune attendesse con il fiato sospeso le ultime notizie sugli eremiti irlandesi. Tryggvi aveva ignorato l’ingiunzione al silenzio imposta da Gunnar alle responsabili delle pulizie anche perché, per prima cosa, non avrebbe saputo come comunicarla, e poi perché non ne aveva affatto voglia. Nonostante le sporadiche difficoltà di comprensione tra di loro e la frustrazione che spesso ne seguiva, Tryggvi aveva imparato ad apprezzare la gioia di vivere di quelle donne alacri e solerti.
Quella mattina il loro comportamento non era stato diverso dal solito. Erano arrivate nella saletta che fungeva da caffetteria e avevano salutato in coro il custode con il loro forte accento straniero al quale seguivano, come da abitudine, smorfiette e risatine. Tryggvi non poté far altro che sorridere, come sempre. Poi le donne si tolsero a uno a uno i vari cappotti e soprabiti sotto il suo sguardo indifferente ma vigile. Una normalissima giornata che stava invece per prendere una piega nuova e insolita.
Tryggvi si fece largo con fatica tra il gruppetto di donne assiepatosi attorno alla porta che dava sul corridoio. Notò come il suono si fosse trasformato da gemito in urlo disperato, ma non sapeva distinguere se si trattasse di un urlo di uomo o di donna, anzi, non capiva neppure se fosse umano. Forse era entrato nell’edificio uno strano animale che ora giaceva ferito o intrappolato da qualche parte? Non ebbe nemmeno il tempo di seguire fino alla fine il corso di quelle idee poiché a quell’urlo lacerante ora si era aggiunto un fracasso infernale, come se qualcosa stesse crollando o si stesse sfasciando. Il custode allungò ancor di più il passo lungo il corridoio: il frastuono sembrava provenire dal piano superiore, quindi si diresse in fretta verso la scalinata e salì due gradini per volta. Le donne lo avevano seguito tutte insieme e avevano cominciato a gemere.
Non c’era alcun dubbio che l’urlo provenisse dagli uffici. Tryggvi accelerò ancora la sua corsa affannosa con il gruppetto sempre al seguito, aprì con violenza le porte di sicurezza che davano sul pianerottolo antistante e si fermò di colpo, tanto che le donne si scontrarono l’una con l’altra dietro di lui. Tryggvi fissò la scena che gli si presentò dinnanzi.
Non furono né la libreria sul pavimento né il direttore del dipartimento, accovacciato sopra l’ammasso di libri che ricopriva il corridoio, a ipnotizzare il custode ma, davanti a lui, il cadavere di una persona distesa supina nello stanzino delle fotocopie, metà dentro e metà fuori. Tryggvi sentì lo stomaco rivoltarsi. Che diavolo ci facevano quelle pezze di stoffa sugli occhi? Gli avevano disegnato qualcosa sul torace? E la lingua, com’era combinata?
Le donne cercavano di allungarsi sopra le spalle di Tryggvi e gli strattonavano con forza la camicia. Lui tentò invano di liberarsi della loro presa mentre Gunnar gli tendeva disperato una mano, in cerca di aiuto. L’uomo era completamente fuori di sé dal terrore e, grigio in volto, teneva l’altra mano stretta sul cuore, poi cadde sul fianco. Tryggvi vinse il desiderio di prendere con sé le donne e fuggire via con loro, e invece fece un passo avanti, si liberò dalla loro stretta e si avvicinò ancora di più a Gunnar, che probabilmente stava tentando di dirgli qualcosa.
Capì pochissimo dei rantoli sconnessi che uscivano dalla gola del pover’uomo, tranne che il cadavere — e non poteva trattarsi che di un cadavere, con quell’aspetto — era cascato addosso a Gunnar nel momento in cui aveva aperto la porta dello stanzino. Gli occhi di Tryggvi si volsero istintivamente verso quegli agghiaccianti resti umani.
Mio dio! Le pezze di stoffa nera sugli occhi del cadavere non erano affatto delle pezze.
Thora Gudmundsdottir si spazzolò via in fretta i cereali dai pantaloni e si diede una rapida sistemata prima di entrare nello studio legale. Niente male. La battaglia mattutina, che consisteva nel far arrivare a scuola in orario la figlia di sei anni e il figlio di sedici, era stata ancora una volta vinta. Stavolta la bambina si era improvvisamente rifiutata di mettersi il vestito rosa, il che non avrebbe creato alcun problema se il suo guardaroba non fosse stato quasi interamente costituito da abiti di quel colore. Suo figlio invece si sarebbe felicemente accontentato di indossare gli stessi abiti consumati tutto l’anno, a condizione che su ognuno fosse stampata la figura di un teschio. La più grande impresa materna era riuscire a farlo alzare la mattina. Certo, non era semplice allevare due figli da sola, però non lo era stato nemmeno prima del divorzio. L’unica differenza allora era che, alle fatiche del mattino, si aggiungevano i litigi con il marito. Il pensiero che almeno quel periodo si fosse concluso la fece tornare di buonumore. Un tenue sorriso le apparve sulle labbra nel momento in cui aprì la porta.
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