Entrambi terminarono di bere il loro caffè in completo silenzio, poi Thora prese le due cartelle e si preparò per ritornare in ufficio. I due si misero d’accordo per incontrarsi di nuovo l’indomani e si salutarono.
Mentre la donna stava per allontanarsi dal tavolo, Matthew le posò una mano sul braccio. «Una cosa ancora per finire, frau Gudmundsdottir.»
Thora si voltò.
«Mi sono dimenticato di dirle perché siamo così sicuri che l’individuo nelle mani della polizia non sia il vero colpevole.»
«Perché?»
«Perché non aveva con sé gli occhi di Harald.»
Thora in genere non temeva né furti né scippi, ma rientrando dal suo appuntamento con Matthew badò bene a tenersi stretta la borsa con i documenti. Non poteva rischiare di doverlo chiamare per comunicargli che le era stato rubato il dossier e tirò un sospiro di sollievo nell’oltrepassare la soglia dello studio legale.
All’ingresso venne investita da una nuvola di fumo: «Bella, lo sai benissimo che qui è vietato fumare!»
Bella trasalì dietro l’anta della finestra aperta e gettò via qualcosa in fretta e furia.
«Non stavo affatto fumando», protestò, sbuffando una leggera nuvoletta dal lato sinistro della bocca.
Thora sospirò: «Stai attenta, allora, perché ti si sta incendiando la bocca!» e aggiunse: «Chiudi la finestra e vai a fumare nell’angolino della sala caffè. Starai senz’altro meglio che affacciata lì».
«Non stavo affatto fumando, ma scacciavo i piccioni dal davanzale», insisté Bella con aria offesa. Poi si sedette alla scrivania senza rivolgere lo sguardo alla sua datrice di lavoro.
Thora decise di lasciar perdere. L’esperienza le aveva insegnato che non serviva a niente mettersi a discutere con quella ragazza e preferì ritirarsi nel suo ufficio, chiudendosi la porta alle spalle.
La cartella che Matthew le aveva consegnato era piena zeppa dì documenti e spessi dossier, e il colore nero della copertina si addiceva al suo contenuto. Non c’era nessuna etichetta, il che, in un certo senso, era logico dato che sarebbe stato difficile trovare un nome che non fosse di cattivo gusto.
«Harald Guntlieb in vita e in morte», disse Thora tra le labbra aprendo la cartella e osservando l’indice meticolosamente strutturato. I dossier erano stati divisi, tramite fogli numerati di diverso colore, in sette categorie che sembravano disposte in ordine cronologico: Germania, Leva, Università di Monaco, Università d’Islanda, Conti correnti, Indagine. Il settimo e ultimo capitolo aveva per titolo Autopsia. Thora decise di sfogliare il contenuto della cartella nello stesso ordine in cui si trovava. Dando un’occhiata all’orologio vide che erano già le due e sicuramente non avrebbe fatto in tempo a leggere tutto per le cinque, quando avrebbe dovuto prendere sua figlia Soley da scuola, quindi decise di dare soltanto una rapida scorsa ai documenti. Puntò dunque la sveglia del suo telefonino alle cinque meno un quarto: di portarsi a casa il fascicolo non ne aveva affatto voglia, benché altre volte le fosse capitato di dover concludere casi oltre l’orario di ufficio nei periodi più intensi di lavoro. Ma il contenuto di questa cartella rendeva impensabile lasciarla alla portata di due minorenni. Thora sfogliò il primo foglio colorato e cominciò a leggere.
Nella parte superiore della prima pagina c’era la fotocopia di un certificato di nascita, dal quale si poteva leggere che la signora Amelia Guntlieb aveva partorito un figlio maschio, sano, a Monaco, il 18 giugno 1978. Il signor Johannes Guntlieb, bancario, era registrato come padre del bambino. Thora non aveva mai sentito il nome della clinica ostetrica dove era nato Harald: non era un ospedale pubblico, per cui Thora dedusse che si trattava di qualche costosissima clinica privata per l’alta borghesia bavarese. Sotto la dicitura «credo religioso» era stato dattilografato «cattolico». Thora ricordava vagamente che più di un terzo dei tedeschi era cattolico e che la percentuale era assai più alta nel Sud della Germania. Durante i suoi anni di studi in quel Paese, Thora si era quasi meravigliata della grande quantità di cattolici, dato che aveva sempre collegato i tedeschi con Lutero e la fede protestante. Beata ignoranza!
Le pagine successive, di plastica, erano state suddivise in quattro sezioni, ognuna con fotografie della famiglia Guntlieb in occasioni diverse. Ogni immagine era accompagnata da una etichetta con i nomi delle persone che vi comparivano. A prima vista, Harald era presente in tutte. Oltre alle istantanee di famiglia erano state incluse delle foto di classe di diversi periodi scolastici, nelle quali Harald compariva ben pettinato e vestito di tutto punto, come si usa in tali occasioni. Thora non riusciva a capire perché mai quelle foto fossero state incluse in quell’atipico album di famiglia. L’unica spiegazione plausibile era che avessero la funzione di ricordarle che persino la vittima, un tempo, era stata un bambino, un figlio, un fratello. Il che ebbe l’effetto desiderato.
Nelle prime fotografie, che erano anche le più vecchie, si ammirava un bel pupo grassoccio con il fratello, che sembrava avere due o tre anni più di lui, o con la madre. Thora fu colpita dalla raggiante bellezza di Amelia Guntlieb e, nonostante la scarsa qualità delle immagini, era evidente che si trattava di una di quelle donne che rimangono sempre bellissime senza alcuno sforzo. Una foto dei due, in particolare, aveva attratto la sua attenzione: la madre insegnava al figlio a camminare. In giardino, la signora Guntlieb teneva per le mani il bimbo che tentava di muovere i primi, impacciati passi: una gamba col piede per aria e l’altra piegata sul ginocchio. Frau Guntlieb sorrideva al fotografo e la felicità le risplendeva in volto. La voce glaciale che Thora aveva udito al telefono non si addiceva affatto a quel viso radioso. Il bimbo aveva quell’età in cui il volto non è ancora finemente marcato a causa delle guance paffute e del nasino a patata, ma si notava comunque tra i due una forte somiglianza.
Nelle istantanee successive Harald aveva due o tre anni e la somiglianza con la madre era ormai diventata marcatissima. Amelia, che compariva in tutte le foto, era prima incinta, poi sorridente con un neonato in braccio, avvolto in un soffice e delicato porte-enfant. In una di queste, Harald era in piedi accanto alla sedia sulla quale sedeva la signora e allungava il collo come per guardare la piccola, sua sorella, mentre la madre gli posava una mano sulla spalla. Nella didascalia di sotto si poteva leggere che la bambina aveva ricevuto, al battesimo, il nome di sua madre, e come secondo nome Maria. Quindi si trattava della figlia deceduta per una malattia congenita. A giudicare dalla foto, la famiglia ancora non si era resa conto che la bimba era gravemente malata. La madre, per lo meno, sembrava beata e priva di preoccupazioni, mentre nelle immagini che seguivano era evidente il cambiamento. La signora Guntlieb, che fino ad allora era apparsa sorridente e serena in ogni immagine, sembrava ora triste e assente, oppure accennava un sorriso di convenienza, ma i suoi occhi tradivano inquietudine. Tra lei e Harald, inoltre, non c’era più il contatto che aveva caratterizzato le foto più vecchie e anche il piccolo appariva abbacchiato e sperduto. La bambina era svanita nel nulla.
A quel punto era come se alcuni capitoli della storia famigliare fossero stati cancellati dall’album, infatti le immagini che ora Thora guardava la proiettavano avanti nel tempo di almeno cinque anni. Il capitolo nuovo cominciava con una foto in cui la famiglia al completo era in posa, ed era la prima in cui compariva anche il signor Guntlieb, uomo dall’aspetto dignitoso e chiaramente più anziano di sua moglie. Tutte le persone ritratte indossavano i loro abiti più belli ed eleganti e in più si era aggiunta una bambina che stava in grembo a sua madre. Si trattava senza dubbio della figlia minore della coppia, l’unica oggi ancora in vita. La piccola malata sedeva, ora, su una sedia a rotelle. Non ci voleva un particolare occhio clinico per rendersi conto della gravità della sua situazione, legata com’era da lacci, con la testa riversa all’indietro e la bocca spalancata. La mandibola, invece di scendere verso il basso, era inclinata su un lato, denotando l’impossibilità da parte della ragazzina di controllare i suoi movimenti. Lo stesso valeva anche per gli arti superiori: un braccio era contorto fino al gomito e la mano piegata in modo abnorme verso il braccio stesso, con le dita a mo’ di artiglio. L’altro braccio giaceva inerte sul suo grembo. Dietro la sedia a rotelle si era sistemato Harald, che ora doveva avere sugli otto anni. L’espressione del suo volto non assomigliava a niente di quanto Thora avesse potuto intravedere nel viso di un bambino di quell’età: era come se lui avesse cessato di vivere. Benché nessuno dei membri della famiglia, compreso il fratello maggiore, fosse l’espressione della felicità, il piccolo Harald faceva pena, nella sua cupa tristezza. Doveva per forza essere successo qualcosa di grave, qualcosa che forse andava oltre una semplice costernazione per il destino crudele capitato alla sorellina. Che si trattasse di una profonda depressione che, seppur in rari casi, colpiva anche i bambini? Depressione causata dalla mancanza di attenzioni o dalla concorrenza tra i fratellini per l’amore dei genitori, anch’essi depressi? Se era questo il caso, era anche palese, dalle foto che seguivano, che i coniugi non avevano saputo né affrontare né risolvere la crisi famigliare. In nessuna delle fotografie offrivano al piccolo Harald la benché minima parvenza di affetto o contatto fisico, e il bambino era sempre un po’ in disparte, distaccato dagli altri tranne che in quelle poche foto dove suo fratello maggiore si trovava dritto, in piedi, al suo fianco. Era come se sua madre l’avesse completamente dimenticato o lo ignorasse volutamente. Thora si riservò di non trarre conclusioni affrettate, basate esclusivamente su vecchie foto che mostravano soltanto attimi infinitesimali della vita di una famiglia a lei sostanzialmente sconosciuta, momenti che magari rendevano solo un’immagine sfocata e irreale di comportamenti e pensieri.
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