«Merda!» esclamò Holland. «Un carcerato costa allo stato venticinquemila sterline all’anno. Non è un po’ troppo?»
Thorne non era in grado di rispondere. Quella cifra era il doppio di quanto molti lavoratori guadagnavano in un anno, ma se si pensava alla retribuzione del personale carcerario, alla manutenzione degli edifici…
«Non credo che quei soldi vengano spesi per comprare il caviale ai detenuti» osservò. «No, ma mi sembra tanto lo stesso…» Dentro l’auto si scoppiava di caldo. La Mondeo era troppo vecchia per avere l’aria condizionata, e il sistema di ventilazione, che Thorne aveva fatto riparare già due volte, riusciva a mandare nell’abitacolo soltanto aria calda. Thorne aprì un finestrino, ma mezzo minuto dopo lo richiuse. Il fresco che ne veniva era poco e il rumore troppo.
Holland alzò di nuovo gli occhi dal suo opuscolo. «Pensa che sia giusto che abbiano dei lussi, lì dentro? Tipo la televisione in cella, le playstation che alcuni di loro possiedono…?»
Thorne abbassò un po’ il volume e si concentrò su un cartello sul ciglio della strada. Si stavano avvicinando allo svincolo Milton Keynes. Londra distava ancora una settantina di chilometri. Si rese conto, e non per la prima volta, che malgrado passasse la vita a mandare delinquenti in galera, non si era mai preoccupato molto di quel che accadeva loro dietro le sbarre. La sua idea era che la perdita della libertà fosse già di per sé un castigo sufficiente. Oltre a ciò, non sapeva bene cosa pensare in proposito.
Frenò leggermente e imboccò lo svincolo. Senza alcuna fretta.
Thorne era d’accordo che assassini, violentatori e pedofili andassero tolti dalla circolazione. E mandarli in galera era compito suo e di quelli come lui. A quel punto, dopo che quei criminali erano stati assicurati alla giustizia, diventava compito di altri ragionare sulla linea di confine tra castigo e riabilitazione. Sentiva istintivamente che le carceri non dovevano diventare dei centri vacanze. Sorrise tra sé a quel pensiero. Cominciava a usare espressioni da conservatore incallito. Cristo, un televisore non cambiava nulla. Che guardassero pure le partite di calcio, se volevano!
Purtroppo, era appena riuscito a chiarirsi cosa voleva rispondere a Holland, quando lui cambiò argomento.
«Porca puttana» disse, alzando ancora una volta lo sguardo dall’opuscolo. «Il sessanta per cento delle reti in uso sui campi da gioco inglesi è fabbricato da carcerati. Spero che quelle del White Hart Lane le abbiano rinforzate bene, visti tutti i gol che gli Spur beccano dalle altre squadre.»
«Già…»
«Senta questa. Le fattorie annesse alle carceri producono dieci milioni di litri di latte all’anno. Davvero stupefacente.»
Thorne aveva smesso di ascoltarlo. Sentiva solo il fruscio della strada sotto le ruote e pensava alla fotografia. Rivedendo l’immagine di quella donna nuda e incappucciata, la finta Jane Foley, avvertì un certo fremito nella zona inguinale.
Dovunque l’abbia presa…
Improvvisamente, seppe dove avrebbe potuto trovare la risposta, ammesso che ce ne fosse una. La donna in quella foto non si chiamava certo Jane Foley, ma senz’altro aveva un nome e lui conosceva la persona giusta a cui provare a chiederlo.
Quando tornò ad ascoltare Holland, scoprì che gli stava facendo un’altra domanda.
«…stiano proprio così male? Pensa che le prigioni di adesso siano migliori di quelle del…?»
«1969» disse Thorne. Johnny Cash in quel momento stava cantando la canzone dedicata al penitenziario di San Quentin, in cui diceva di odiare ogni palmo di quel luogo. I carcerati urlavano e applaudivano a ogni insulto mordace, a ogni invito a radere al suolo la prigione.
«Allora?» chiese di nuovo Holland, agitando l’opuscolo. «Le prigioni adesso sono migliori di quelle di allora, secondo lei?»
Nella mente di Thorne apparve il viso dell’uomo rinchiuso a Belmarsh e qualcosa dentro di lui s’indurì.
«Spero proprio di no.»
Poco dopo le sei, Eve Bloom chiuse il negozio a doppia mandata, fece pochi passi fino a un portone rosso scuro e fu a casa.
Era stata una buona idea affittare quell’appartamento così vicino al negozio. Non era molto costoso, ma lei sarebbe stata disposta a pagare anche di più per il piacere di potersi alzare all’ultimo minuto. Ogni secondo passato a letto era prezioso per chi, come lei, molte mattine doveva essere già sveglia e vestita a ore impossibili per andare al mercato dei fiori di Covent Garden a fare le sue ordinazioni e a litigare con i grossisti, mentre la maggior parte delle persone era ancora beatamente addormentata.
Le piaceva quel periodo dell’anno, quelle poche settimane estive in cui non era costretta a scegliere tra lavorare con sciarpa e guanti di lana, oppure rovinare i fiori con il riscaldamento centralizzato. Le piaceva chiudere quando c’era ancora luce. Contribuiva a renderle meno faticose le levatacce del mattino e dava a quel paio di ore tra la fine del giorno e l’inizio della sera un vago sentore di eccitazione, di possibilità, di attesa.
Chiuse la porta d’ingresso e salì le scale di legno che portavano al suo appartamento. Denise le aveva passate con la levigatrice e rimesse a nuovo in un weekend, mentre lei si era assunta la responsabilità di imbiancare le pareti. La maggior parte dei lavori domestici venivano spartiti in modo abbastanza equo tra loro due. C’erano, talvolta, momenti di freddezza e imbarazzo, a causa di uno yogurt sparito dal frigo o di un vestito preso in prestito senza permesso, ma in genere andavano d’accordo. Denise poteva essere un po’ eccessiva nel suo desiderio di controllare la vita degli altri, ma Eve, dal canto suo, sentiva la necessità di essere controllata ogni tanto. Era piuttosto disorganizzata e provava una piacevole sensazione al pensiero che qualcuno si occupasse di lei, anche se Den era spesso un po’ troppo protettiva. Quanto alla sua fissazione di fare sempre una lista delle cose mancanti, poteva risultare noiosa, ma faceva sì che il frigorifero fosse sempre pieno e la carta igienica non mancasse mai.
Eve appoggiò la borsa sul tavolo di cucina e attaccò la presa del bollitore dell’acqua. «Ehi, Hollins, vecchia ciabatta, vuoi un tè?» Ma ancor prima di terminare la frase, si ricordò che Denise, dopo il lavoro, sarebbe andata direttamente al pub vicino al suo ufficio, dove aveva appuntamento con Ben. L’aveva chiamata in negozio all’ora di pranzo per dirglielo e per invitarla a unirsi a loro, se ne avesse avuta voglia.
Eve andò in camera per mettersi una maglietta pulita, mentre aspettava che l’acqua bollisse. No, sarebbe rimasta a casa a istupidirsi davanti alla tivù con una bottiglia di vino bianco fresco. Non aveva voglia di cambiarsi e uscire. Fuori l’aria era calda e umida, il pub sarebbe stato fumoso e pieno di rumore e a lei sarebbe toccato reggere il moccolo a Denise e Ben, sempre intenti a sbaciucchiarsi…
In mutandine e reggiseno, si rimirò nello specchio dietro la porta della camera, mettendosi in posa. Sorrise ripensando al poliziotto che aveva risposto al telefono la settimana prima. Era impossibile farsi un’idea di come fosse soltanto dalla voce, ovviamente, ma lei ci aveva provato comunque e ciò che aveva immaginato non le era dispiaciuto affatto. Era abbastanza sicura, delitto o non delitto, che lui avesse flirtato un po’ con lei, al telefono. E sapeva per certo di averlo corrisposto. O era stata lei a iniziare?
Indossò una maglietta bianca e tornò in cucina a preparare il tè.
Avevano mandato un’auto in negozio, il giorno dopo quella telefonata, per ritirare la cassetta della segreteria telefonica. Lei aveva detto che sarebbe stata feEce di portarla di persona alla centrale di polizia, ma ovviamente loro avevano fretta di averla.
Mentre apriva le finestre dell’appartamento per cambiare l’aria, Eve cercava di decidere se una settimana di intervallo fosse abbastanza e, inoltre, se fosse meglio presentarsi in centrale senza preavviso, oppure telefonare prima. Non voleva sembrare invadente, ma aveva tutto il diritto di informarsi su ciò che stava succedendo, visto che era coinvolta nella vicenda, ed era naturale che fosse curiosa dopo la storia della telefonata. Informarsi sugli sviluppi dell’indagine era ciò che qualunque cittadino avrebbe fatto al suo posto.
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