Mark Billingham - Maestro di morte

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Maestro di morte: краткое содержание, описание и аннотация

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Il cadavere è nudo, inginocchiato sul materasso di uno squallido albergo di Londra. La testa è coperta da un cappuccio, le mani, legate con una cintura, sono protese in avanti come in preghiera. Il killer l'ha violentato ripetutamente. Poi l'ha strangolato. E alla fine, prima di dileguarsi, ha ordinato una corona funebre. Non saranno in molti a piangere la morte di Douglas Remfry, reduce da sette anni di reclusione per aver violentato tre giovani donne. Ma all'ispettore Thorne della squadra crimini speciali della polizia di Londra non interessa il passato della vittima. Il suo compito è trovare l'assassino e consegnarlo alla giustizia.

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«Devi dimenticare quello che ha detto il sergente, capito? Faceva soltanto il suo lavoro. Voleva essere certo che tutto fosse davvero accaduto come hai detto tu. Sa che al processo sarà molto peggio. Sa quanto possono essere duri gli avvocati della difesa. E credo che abbia voluto prepararci, con l’idea che, ripetendo tante volte il racconto adesso, in tribunale sarà più facile.» La testa di lei era immobile. Le mani invece si muovevano dentro la bacinella di plastica bianca.

«Sai cosa ti dico?» disse lui. «Lasciamo passare il Natale, poi per Capodanno potremmo andarcene via per un po’. Cercare di recuperare l’equilibrio…»

Lei sussurrò qualcosa che lui non capì.

«Puoi ripetere, amore?»

«Il dopobarba di quel poliziotto» disse lei. «All’inizio ho pensato che fosse lo stesso di Franklin. Credevo di vomitare. Era così forte…»

Iniziò a urlare non appena lui le sfiorò la nuca e urlò ancor più forte quando si voltò di scatto e lo colpì sul naso con la tazza che aveva in mano.

Poi urlò per ciò che aveva fatto e lo abbracciò e caddero insieme sul linoleum, scivoloso di sangue e detersivo.

Nel frattempo, voci di bambini cantavano di vischio e agrifoglio.

CAPITOLO 4

All’epoca in cui Peel Centre era un centro di addestramento per cadetti, Becke House era un dormitorio. A volte Thorne aveva ancora la sensazione, girando un angolo, o aprendo la porta di un ufficio, di sentire un odore di sudore e nostalgia di casa.

Non c’era da stupirsi, quindi, che circa un mese prima la notizia che sarebbero state apportate delle migliorie avesse elettrizzato tutti. In realtà, si era trattato soltanto di un aumento del budget per le spese di cancelleria, di una nuova macchina per il caffè e di un altro cubicolo senz’aria di cui Brigstocke si era immediatamente appropriato.

Ora c’erano tre uffici nello stretto corridoio che partiva dalla sala di pronto intervento più grande.

Quello nuovo era di Brigstocke, quello accanto era condiviso da Thorne e Yvonne Kitson, mentre nel più piccolo Stone e Holland si contendevano il cestino della carta straccia e l’unica sedia provvista di un cuscino.

Thorne detestava Becke House. Quel posto lo deprimeva e gli toglieva ogni energia, anche quella per odiarlo nel modo appropriato. Aveva sentito parlare di una “sindrome dell’edificio malato” e si era convinto che la malattia di quel posto fosse terminale.

Aveva passato la mattina seduto alla scrivania, a sudare come un maiale e a leggere tutti i documenti relativi al caso. Aveva letto il referto dell’autopsia, il rapporto del medico legale e perfino quello che lui stesso aveva scritto dopo la visita al carcere di Derby. Aveva letto gli appunti di Holland sulla perquisizione in casa di Remfry, i colloqui con i parenti delle donne che aveva violentato e le dichiarazioni rilasciate da alcuni suoi compagni di cella di tre prigioni diverse.

Una quantità di carta e una sola pista promettente. Un ex compagno di cella di Remfry aveva menzionato un detenuto di nome Gribbin, con cui Remfry aveva detto di aver litigato quando erano entrambi in attesa di giudizio a Brixton. Gribbin era stato rilasciato sulla parola quattro mesi prima di Remfry, ma si era sottratto al regime di libertà vigilata e al momento era ricercato…

Quando Thorne ebbe finito di leggere, si mise a farsi vento con una cartelletta vuota, fissando le misteriose bruciature sul rivestimento in polistirolo del soffitto. Poi rilesse tutto di nuovo.

Entrò Yvonne Kitson. Thorne alzò gli occhi, appoggiò i fogli sulla scrivania e guardò fuori dalla finestra aperta.

«Sto meditando di buttarmi di sotto» disse. «Il suicidio mi sembra un’opzione attraente. Se non altro, durante la caduta dovrei sentire un po’ di fresco.»

Lei rise. «Siamo soltanto al terzo piano. Dov’è il ventilatore?»

«Se l’è preso Brigstocke.»

«Tipico.» L’ispettrice Kitson si sedette su una sedia contro la parete e infilò una mano in una grossa borsa. Quando tirò fuori il suo contenitore della Tupperware, Thorne rise.

«È mercoledì, quindi deve essere al tonno.»

Lei aprì il contenitore e ne estrasse un sandwich. «All’insalata di tonno, per la precisione. Mio marito oggi si è sbilanciato e ci ha messo dentro una foglia di lattuga.»

Thorne si appoggiò allo schienale della sedia, battendosi sul braccio con un righello di plastica. «Come fai, Yvonne?»

Lei lo fissò a bocca piena. «Come faccio cosa?»

Sempre con il righello in mano, Thorne allargò le braccia. «Questo. Tutto questo. E, in più, tre figli da crescere…»

«Anche l’ispettore capo ha dei figli.»

«Sì, ed è nel casino più totale, come tutti noi. Tu, invece, sembri farcela senza neppure sudare. Lavoro, casa, bambini, cani, e anche il pranzo preparato.» Tese il righello verso di lei, come fosse un microfono. «Ci dica, ispettrice Kitson, qual è il suo segreto?»

Lei si schiarì la voce, stando al gioco. «Talento naturale, un marito che crede a tutto ciò che dico e un’organizzazione ferrea. Inoltre, non mi porto mai il lavoro a casa. Altre domande?»

Thorne scosse la testa e appoggiò il righello sulla scrivania.

«Bene, vado a prendere una tazza di tè. Vuoi venire anche tu?»

Percorsero il corridoio, superando le porte degli altri uffici, verso la sala di pronto intervento.

«Parlavo sul serio, prima» disse Thorne. «Tu mi stupisci, a volte.»

Nessuno nella squadra conosceva Yvonne Kitson da molto tempo, ma a parte qualche commento occasionale da parte di colleghi maschi più anziani e meno efficienti, non era mai stato detto nulla di male su di lei.

Tuttavia, l’avrebbe mandata su tutte le furie il fatto di scoprire che molti colleghi, compreso Thorne, trovavano in lei un tratto piacevolmente materno. Era qualcosa legato al suo stile più che al suo aspetto. Aveva trentatré anni, capelli biondo cenere, era piuttosto bella, non vestiva mai in modo appariscente. Aveva un carattere nient’affatto spigoloso, faceva bene il suo lavoro e non sembrava mai turbata. Si capiva subito che era destinata a una rapida carriera.

Yvonne Kitson si chinò per prendere il bicchiere di tè dal distributore automatico e lo passò a Thorne. «Anch’io parlavo sul serio, quando ho detto che non porto mai il lavoro a casa.» Poi inserì altri spiccioli nella macchina. «Non potrei neppure se volessi, non c’è abbastanza spazio…»

Tutte le finestre della sala di pronto intervento erano aperte. Dalle scrivanie e dagli schedari volavano pezzi di carta.

Thorne sorseggiò il tè, ascoltando il fruscio dei fogli e i grugniti di quelli che dovevano chinarsi a raccoglierli, e pensò a quanto era diverso da quella donna. Lui si portava il lavoro dappertutto, non solo a casa. Tanto si trattava di una casa vuota. Aveva divorziato dalla moglie Jan cinque anni prima, dopo che lei aveva preso una sbandata per un professore di scrittura creativa. Da allora Thorne aveva avuto un paio di avventure, ma nulla di serio.

Yvonne Kitson infilò il bicchiere di plastica bollente in un altro bicchiere vuoto e soffiò sul tè. «A proposito, è una mia impressione, o davvero nel caso Remfry non abbiamo fatto passi avanti?»

Thorne vide Russell Brigstocke che, dal lato opposto della sala, gli faceva cenno di raggiungerlo nel suo ufficio. «No, non è una tua impressione…» rispose alla collega, mentre si avviava.

Quando Russell Brigstocke era davvero incazzato, aveva una faccia capace di far cagliare il latte. Quando invece cercava di apparire serio, c’era sempre qualcosa di melodrammatico nella sua espressione, un modo di atteggiare la testa e le labbra che strappava sempre un sorriso a Thorne.

«Allora, come siamo messi, Tom?»

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