Mark Billingham
Maestro di morte
«Perché una notte o l’altra
verrà il Giardiniere vestito di bianco,
e i fiori recisi saranno morti…»
JAMES ELROY FLECKER,
Golden Journey to Samarkand
Per Pat e Tony Thompson
e Jeff e Pam Billingham
Carissimo Dougie,
mi dispiace doverti mandare un’altra lettera scritta a macchina, ma, come ti ho spiegato, è difficile per me scriverti da casa, perciò lo faccio dall’ufficio, quando il capo guarda da un’altra parte, o durante la pausa pranzo (come oggi). Quindi, scusa se ti sembro un po’ formale. Credimi, mentre ti scrivo, la formalità è proprio l’ultima cosa che mi interessa!
Spero che le cose ti vadano bene e, anche se il periodo non è un granché, mi auguro che le mie lettere ti facciano sentire un po’ meglio. Mi piace sognare che aspetti di riceverle e che mi immagini seduta qui a pensarti. Almeno adesso hai le foto [ti sono piaciute?], così non devi usare troppo l’immaginazione (sorriso perverso)!
So che quello è un posto terribile, ma devi credere fermamente che le cose miglioreranno. Un giorno sarai fuori, con un futuro brillante davanti. È sciocco da parte mia sperare di poter avere una parte in quel futuro? So che non dovresti essere lì. So che il fatto che tu ci sia è ingiusto.
Ora devo lasciarti, perché vorrei imbucare la lettera prima della fine della pausa pranzo e non ho ancora mangiato. Scriverti, sentirti vicino, è molto più importante di un sandwich al formaggio (sospiro!].
Ti manderò presto un’altra lettera, Dougie, forse con un’altra foto. Le attacchi al muro? Non so neppure se hai una cella tutta per te. Se non ce l’hai, spero che i tuoi compagni siano delle brave persone. Per loro è una fortuna averti lì!
Finirà presto e, quando sarai fuori, chissà, forse potremo finalmente stare insieme. Sono sicura che l’attesa non sarà stata vana.
Per favore, riguardati, Dougie. Spero che pensi a me.
La tua, frustrata…
Parte Prima
NASCITE, MATRIMONI E DECESSI
10 agosto 1976
Si spinse lentamente verso l’esterno. Ogni contrazione lo faceva avanzare di un po’ sul bordo della ringhiera. Torse i polsi, avvolgendoli stretti nell’asciugamano. Non voleva lasciarsi nessuna via d’uscita, sapendo che il suo corpo l’avrebbe cercata, che avrebbe istintivamente tentato di liberarsi.
I suoi talloni rimbalzavano ritmicamente contro le sbarre della ringhiera su cui era seduto. Il cavo da traino blu che aveva trovato in garage gli causava prurito al collo. Sorrise tra sé. Grattarsi, anche se avesse potuto farlo, sarebbe stato stupido. Come disinfettare la pelle con un batuffolo di cotone prima di un’iniezione letale.
Chiuse gli occhi, piegò in avanti la testa e lasciò che fosse il suo peso a spingerlo oltre la ringhiera.
Il contraccolpo sembrò tremendo, ma in realtà non era stato neppure abbastanza forte da spezzargli l’osso del collo. Non aveva avuto tempo di fare i calcoli, peso per altezza, eccetera. E anche se l’avesse avuto, non era certo che avrebbe saputo farli bene. Ricordava di aver letto da qualche parte che i boia professionisti erano in grado di determinare con precisione la lunghezza di corda necessaria semplicemente stringendo la mano al condannato.
«Piacere di conoscerla, tre metri e mezzo, direi…»
Digrignò i denti per il dolore alla schiena. Il bordo della ringhiera gli aveva strappato un lembo di pelle, mentre scivolava già.
Sentì il sangue caldo colargli sul mento e capì di essersi morso la lingua. Sentiva l’odore di olio da motori della corda.
Pensò alla donna stesa sul letto, a meno di tre metri da lui.
Sarebbe stato bello se fosse stata lei a trovarlo. Poter vedere la sua faccia, la sua bocca bugiarda spalancata, mentre allungava una mano per fermare le oscillazioni del suo corpo. Sarebbe stato perfetto, ma naturalmente lui non avrebbe assistito alla scena. Né lei l’avrebbe vissuta.
Sarebbe stato qualcun altro a trovarli entrambi.
Chissà cosa avrebbero pensato gli inquirenti. Cosa avrebbero scritto i giornali. I loro nomi sarebbero stati sussurrati in certi uffici e in certi salotti. Il nome di lui, il nome che le aveva dato sposandola, sarebbe echeggiato tra le pareti di un’aula di tribunale, come era già successo in passato, trascinato nel fango che lei aveva allargato a macchia d’olio davanti a sé. Stavolta, però, loro due sarebbero stati assenti, mentre gli altri parlavano della tragedia, delle loro menti disturbate. Era difficile, in quel momento, pensarla diversamente. Lui appeso lì, in attesa di morire, e lei poco più in là, morta già da mezz’ora, con il sangue che inzuppava la moquette color fungo della camera da letto.
Lei aveva disturbato la mente di entrambi. Quello che aveva avuto se l’era cercato.
Mezz’ora prima, le sue mani tese per proteggersi.
Otto mesi prima, le sue mani tese, le gambe aperte sul pavimento di quel magazzino.
Se l’era cercata…
Ebbe un conato e sputò sangue. Sentiva un’ombra in procinto di scendere e la vita, grazie a Dio, in procinto di abbandonarlo. Quanto tempo era passato? Due minuti? Cinque? Spinse i piedi verso il basso, augurandosi che il suo peso portasse a compimento in fretta il lavoro.
Udì un rumore, come un cigolio, e un mormorio di stupore. Aprì gli occhi.
Dava le spalle alla porta ed era voltato verso le scale. Provò a girarsi con un colpo di reni. Quando ci riuscì, ormai vicinissimo alla morte, si trovò a fissare, attraverso le pupille iniettate di sangue, i limpidi occhi castani di un bambino.
Il suo look era rovinato dalle scarpe da jogging.
L’uomo con i capelli tagliati a spazzola e il labbro superiore imperlato di sudore indossava un elegante abito blu, senza dubbio acquistato per l’occasione, ma ne aveva guastato l’effetto con quelle Nike Air, che stridevano sul pavimento della palestra ogni volta che lui spostava nervosamente i piedi sotto il tavolo.
«Mi dispiace» disse. «Mi dispiace tanto, davvero.»
Di fronte a lui erano seduti due anziani coniugi. L’uomo aveva la schiena dritta come un palo e gli occhi chiari dallo sguardo fisso. La donna che gli stava accanto gli teneva la mano. I suoi occhi, a differenza di quelli del marito, guardavano dappertutto, tranne che verso l’uomo con l’abito blu. L’ultima volta che lei lo aveva visto così da vicino era stata quando lui li aveva legati entrambi, dopo essersi introdotto in casa loro.
Il mento accuratamente rasato di Darren Ellis iniziò a tremare. La sua voce si fece incerta. «Se c’è una cosa qualunque che posso fare per farmi perdonare, la farò» disse.
«Non c’è» ribatté il vecchio.
«Non posso tornare indietro nel tempo, ma mi rendo conto di aver commesso un’azione orribile. So quello che avete passato.»
La donna cominciò a piangere.
«Come puoi saperlo?» disse il vecchio.
Darren Ellis cominciò a piangere a sua volta.
Nell’ultima fila, dove le sedie erano addossate alle spalliere della palestra, sedeva un uomo dall’aspetto robusto, che indossava una giacca di pelle nera. Aveva una quarantina d’anni, gli occhi scuri e i capelli più grigi su un lato della testa che sull’altro. Sembrava a disagio e un po’ confuso. Si voltò verso l’uomo seduto accanto a lui.
«Tutte balle» disse Thorne.
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