Adesso erano seduti in macchina, entrambi troppo scossi per scendere. Guardavano fisso davanti a sé, senza osare lanciare neppure un’occhiata verso la casa. La casa. Il posto in cui, la sera prima, lei gli aveva raccontato ogni cosa. Le stanze in cui avevano pianto e gridato. Il luogo in cui tutto era cambiato.
La casa in cui non si sarebbero mai più sentiti a casa.
Senza girare la testa, lei parlò con rabbia. «Perché non mi hai portato alla polizia ieri sera? Perché mi hai fatto aspettare fino a ora?»
Il motore era spento, l’auto era ferma, ma le sue mani non lasciavano il volante. E, mentre lo stringeva ancora più forte, i guanti di pelle scricchiolavano. «Non volevi ascoltare! Non volevi ascoltare nulla!»
«E cosa ti aspettavi? Cristo, non sapevo neppure come mi chiamavo. Non sapevo cosa facevo. Non mi sarei nemmeno mai fatta la doccia…»
Il giorno prima lei era troppo sconvolta per pensare con chiarezza, ovviamente. Lui aveva cercato di spiegarlo alla poliziotta, al commissariato, ma lei aveva scrollato le spalle e aveva lanciato un’occhiata alla collega, continuando a prendere i vestiti, a mano a mano che la moglie se li toglieva, e a infilarli in una borsa di plastica.
«Non avresti dovuto farti la doccia, ragazza mia» aveva detto la poliziotta. «Saresti dovuta venire subito qui, dopo il fatto…»
Il motore era spento da meno di un minuto, ma in macchina già si gelava. Lui sentiva il calore delle lacrime che gli scendevano sul viso, fino ai baffi. «Hai detto che volevi lavarti, toglierti di dosso ciò che ti aveva fatto. Io ho detto che lo capivo, ma che non era una buona idea. Tu non mi ascoltavi neppure…»
Era rimasto paralizzato, in piedi nel soggiorno, dopo che lei glielo aveva detto. Poi erano seguiti minuti e ore terribili. Lei non voleva lasciarsi abbracciare, non voleva che lui telefonasse a nessuno. Non voleva che andasse a casa di quel bastardo per prenderlo a calci in mezzo alle gambe.
Lui guardò l’orologio. Si chiese se la polizia avrebbe prelevato Franklin al lavoro, o avrebbe aspettato che tornasse a casa.
Doveva telefonare in ufficio, per avvisare che quel giorno non si sarebbe presentato. Doveva chiamare la scuola, per controllare che fosse tutto a posto, che le spiegazioni della sera prima sul motivo per cui la mamma era tanto agitata fossero state credute…
«Cosa voleva dire quella donna?» disse lei, all’improvviso. «La poliziotta. Quando ha chiesto se mi mettevo sempre vestiti così carini per andare al lavoro?» Iniziò a dondolare piano avanti e indietro sul sedile, con le mani tra le gambe.
La neve cadeva a fiocchi pesanti, coprendo rapidamente il cofano e il parabrezza. A lui non venne neppure in mente di azionare il tergicristalli.
Quando si ritrovarono a parlarne, più tardi, Thorne e Holland ammisero entrambi di sentirsi attratti dal vicedirettore del carcere di Derby. Ciò che nessuno dei due disse apertamente, tuttavia, era il fatto che quella donna aveva solleticato la loro fantasia non solo perché era carina, ma anche, e forse soprattutto, perché dirigeva una prigione.
«Ha fatto certamente un ottimo lavoro» disse Tracy Lenahan appoggiando il foglio sulla scrivania. Si trattava della fotocopia di una delle oltre venti lettere che Remfry aveva ricevuto in carcere e che Holland aveva trovato a casa sua, sotto il letto.
Lettere scritte da un assassino, che si spacciava per una donna di ventotto anni di nome Jane Foley.
Thorne e Holland si erano già fatti spiegare la procedura con cui veniva smistata la posta dei detenuti. In media ne arrivavano cinque sacchi al giorno. Le lettere venivano portate da due, a volte tre, secondini nell’ufficio del censore. La macchina a raggi X era stata eliminata dall’attuale direttore, ma i cani antidroga erano ancora utilizzati e le lettere venivano aperte per ispezionare l’interno delle buste. Gli addetti al controllo non leggevano la posta e non la mostravano a nessuno, a meno che non ci fosse un motivo importante per farlo.
«Ha fatto un ottimo lavoro spacciandosi per una donna: è questo che intende dire?» chiese Thorne. Lui aveva trovato quelle lettere molto convincenti e Yvonne Kitson era stata della stessa opinione, ma ora gli interessava il parere della direttrice.
«Sì, ma dev’essere stato anche più astuto. Ho già visto lettere simili, in passato. Lettere autentiche, intendo. Vi stupirebbe sapere quanta posta di questo genere arriva a tipi come Remfry. Il tono è lo stesso che troviamo qui: strano, un po’ folle…»
«Qualcosa di simile a un bisogno emotivo» suggerì Holland.
Tracy Lenahan annuì. «Esatto. Questa Jane si presenta come una preda, come una donna sexy in cerca di divertimento…»
«Una donna sexy sposata» aggiunse Thorne. La finta Jane Foley era opportunamente legata a un finto marito molto geloso, motivo per cui Remfry non poteva rispondere alle sue lettere.
Tracy Lenahan lesse di nuovo alcune righe della lettera e annuì. «Ci sono molte allusioni dirette, ma in fondo si percepisce una vena di tristezza.»
«Come se fosse disperata» aggiunse Thorne. «Una donna così disperata da ridursi a scrivere lettere del genere a uno stupratore in galera.»
Holland sbuffò. «Mi gira la testa. Un uomo che finge di essere una donna, che finge di essere una donna diversa…»
Tracy Lenahan mise giù la lettera. «Ma tutto a un livello molto sottile. Come ho detto, è maledettamente in gamba.» Thorne non aveva bisogno di sentirselo dire da lei. Aveva studiato ogni singola lettera di “Jane Foley”, e sapeva perfettamente che l’uomo che le aveva scritte era in gamba. Ed era anche calcolatore e molto paziente.
Tracy Lenahan prese la fotografia. «E questa è la ciliegina sulla torta…»
Thorne rimase colpito dalla scelta di quella metafora, ma non disse nulla. Sul muro dietro la scrivania c’era, come da regolamento, il ritratto della regina, con la consueta espressione di chi ha appena fiutato un odore sgradevole. Alla sinistra di Sua Maestà c’erano una serie di fotografie aeree della prigione e un paio di grandi paesaggi a olio.
Thorne non si intendeva affatto di pittura, ma quei quadri avevano tutta l’aria di essere antichi. Tracy Lenahan alzò gli occhi e, seguendo la direzione del suo sguardo, spiegò: «Quelli si trovano qui fin dall’apertura del carcere, nel 1853. Erano appesi in sala visite, fino a sei mesi fa. Poi, un giorno, un detenuto condannato per ricettazione di oggetti antichi li ha visti ed è impallidito. Abbiamo scoperto che valgono almeno dodicimila sterline ciascuno…».
Sorrise e riportò lo sguardo sulla foto in bianco e nero che aveva tra le mani. Thorne, invece, fissò la cornice d’argento sulla scrivania. Dalla posizione in cui si trovava non riusciva a vedere la foto che conteneva, ma si immaginò un marito atletico, un militare, forse, o magari addirittura un poliziotto, e un bambino sorridente dalla pelle olivastra. Poi guardò la donna dietro la scrivania. Occhi scuri, capelli neri lunghi fino alle spalle, alta, seno prosperoso. E straordinariamente giovane: doveva avere meno di trent’anni. Era evidente che quella donna appariva regolarmente nelle fantasie erotiche degli uomini che teneva rinchiusi lì dentro.
Thorne lanciò un’occhiata a Holland e represse un sorriso constatando come l’agente si sforzasse di non arrossire, mentre aspettava che Tracy Lenahan finisse di osservare la foto di “Jane Foley”. Era l’immagine di una donna in ginocchio, con la testa china e coperta da un cappuccio. La penombra nascondeva quasi tutto, lasciando però intravedere seni generosi, un ciuffo di pelo pubico e una cintura di pelle intorno ai polsi.
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