“Monasterium sine libris,” citò assorto l’Abate, “est sicut civitas sine opibus, castrum sine numeris, coquina sine suppellectili, mensa sine cibis, hortus sine herbis, pratum sine floribus, arbor sine foliis… E il nostro ordine, crescendo intorno al doppio comandamento del lavoro e della preghiera, fu luce per tutto il mondo conosciuto, riserva di sapere, salvezza di una dottrina antica che minacciava di scomparire in incendi, saccheggi e terremoti, fucina di nuova scrittura e incremento dell’antica… Oh, voi sapete bene, viviamo ora in tempi molto oscuri, e arrossisco dirvi che non molti anni fa il concilio di Vienne ha dovuto ribadire che ogni monaco ha il dovere di prendere gli ordini… Quante nostre abbazie, che duecento anni fa erano centro splendente di grandezza e santità, sono ora rifugio di infingardi. L’ordine è ancora potente, ma il fetore delle città cinge dappresso i nostri luoghi santi, il popolo di Dio è ora incline ai commerci e alle guerre di fazione, giù nei grandi centri abitati, dove non può avere albergo lo spirito della santità, non solo si parla (che ai laici altro non potresti chiedere) ma già si scrive in volgare, e che mai nessuno di questi volumi possa entrare nelle nostre mura — fomite di eresia quale fatalmente diviene! Per i peccati degli uomini il mondo sta sospeso sul ciglio dell’abisso, penetrato dell’abisso stesso che l’abisso invoca. E domani, come voleva Onorio, i corpi degli uomini saranno più piccoli dei nostri, così come i nostri sono più piccoli di quelli degli antichi. Mundus senescit. Se ora Dio ha affidato al nostro ordine una missione, essa è quella di opporsi a questa corsa verso l’abisso, e conservando, ripetendo e difendendo il tesoro di saggezza che i nostri padri ci hanno affidato. La divina provvidenza ha ordinato che il governo universale, che all’inizio del mondo era in oriente, man mano che il tempo si avvicina si spostasse verso occidente, per avvertirci che la fine del mondo si approssima, perché il corso degli avvenimenti ha già raggiunto il limite dell’universo. Ma sino a che non scada definitivamente il millennio, fino a che non trionfi, sia pure per poco, la bestia immonda che è l’Anticristo, sta a noi difendere il tesoro del mondo cristiano, e la parola stessa di Dio, quale egli la dettò ai profeti e agli apostoli, quale i padri la ripeterono senza cambiarvi verbo, quale le scuole hanno cercato di chiosare, anche se oggi nelle scuole stesse si annida il serpe della superbia, dell’invidia, della dissennatezza. In questo tramonto noi siamo ancora fiaccole e luce alta sull’orizzonte. E finché queste mura resisteranno, noi saremo i custodi della Parola divina.”
“E così sia,” disse Guglielmo in tono devoto. “Ma cosa c’entra questo con il fatto che non si può visitare la biblioteca?”
“Vedete frate Guglielmo,” disse l’Abate, “per poter realizzare l’opera immensa e santa che arricchisce quelle mura,” e accennò alla mole dell’Edificio, che si intravvedeva dalle finestre della cella, troneggiante al di sopra della stessa chiesa abbaziale, “uomini devoti hanno lavorato per secoli, seguendo regole di ferro. La biblioteca è nata secondo un disegno che è rimasto oscuro a tutti nei secoli e che nessuno dei monaci è chiamato a conoscere. Solo il bibliotecario ne ha ricevuto il segreto dal bibliotecario che lo precedette, e lo comunica, ancora in vita, all’aiuto bibliotecario, in modo che la morte non lo sorprenda privando la comunità di quel sapere. E le labbra di entrambi sono suggellate dal segreto. Solo il bibliotecario, oltre a sapere, ha il diritto di muoversi nel labirinto dei libri, egli solo sa dove trovarli e dove riporli, egli solo è responsabile della loro conservazione. Gli altri monaci lavorano nello scriptorium e possono conoscere l’elenco dei volumi che la biblioteca rinserra. Ma un elenco di titoli spesso dice assai poco, solo il bibliotecario sa, dalla collocazione del volume, dal grado della sua inaccessibilità, quale tipo di segreti, di verità o di menzogne il volume custodisca. Solo egli decide come, quando, e se fornirlo al monaco che ne fa richiesta, talora dopo essersi consultato con me. Perché non tutte le verità sono per tutte le orecchie, non tutte le menzogne possono essere riconosciute come tali da un animo pio, e i monaci, infine, stanno nello scriptorium per porre capo a un’opera precisa, per la quale debbono leggere certi e non altri volumi, e non per seguire ogni dissennata curiosità che li colga, vuoi per debolezza della mente, vuoi per superbia, vuoi per suggestione diabolica.”
“Ci sono dunque in biblioteca anche libri che contengono menzogne…”
“I mostri esistono perché fanno parte del disegno divino e nelle stesse orribili fattezze dei mostri si rivela la potenza del Creatore. Così esistono per disegno divino anche i libri dei maghi, le kabbale dei giudei, le favole dei poeti pagani, le menzogne degli infedeli. E’ stata ferma e santa convinzione di coloro che hanno voluto e sostenuto questa abbazia nei secoli, che anche nei libri menzogneri possa trasparire, agli occhi del lettore sagace, una pallida luce della sapienza divina. E perciò anche di essi la biblioteca è scrigno. Ma proprio per questo, capite, essa non può essere penetrata da chiunque. E inoltre,” aggiunse l’Abate quasi a scusarsi della pochezza di quest’ultimo argomento, “il libro è creatura fragile, soffre l’usura del tempo, teme i roditori, le intemperie, le mani inabili. Se per cento e cento anni ciascuno avesse potuto liberamente toccare i nostri codici, la maggior parte di essi non esisterebbe più. Il bibliotecario li difende dunque non solo dagli uomini ma anche dalla natura, e dedica la sua vita a questa guerra contro le forze dell’oblio, nemico della verità.”
“Così nessuno, salvo due persone, entra all’ultimo piano dell’Edificio…”
L’Abate sorrise: “Nessuno deve. Nessuno può. Nessuno, volendolo, vi riuscirebbe. La biblioteca si difende da sola, insondabile come la verità che ospita, ingannevole come la menzogna che custodisce. Labirinto spirituale, è anche labirinto terreno. Potreste entrare e potreste non uscire. E ciò detto, vorrei che voi vi adeguaste alle regole dell’abbazia.”
“Ma voi non avete escluso che Adelmo possa essere precipitato da una delle finestre della biblioteca. E come posso ragionare sulla sua morte se non vedo il luogo in cui potrebbe aver avuto inizio la storia della sua morte?”
“Frate Guglielmo,” disse l’Abate in tono conciliante, “un uomo che ha descritto il mio cavallo Brunello senza vederlo e la morte di Adelmo senza saperne quasi nulla, non avrà difficoltà a ragionare su luoghi a cui non ha accesso.”
Guglielmo si piegò in un inchino: “Siete saggio anche quando siete severo. Come volete.”
“Se mai fossi saggio, lo sarei perché so essere severo,” rispose l’Abate.
“Un’ultima cosa,” chiese Guglielmo. “Ubertino?”
“E’ qui. Vi attende. Lo troverete in chiesa.”
“Quando?”
“Sempre,” sorrise l’Abate. “Sapete che, benché molto dotto, non è uomo da apprezzare la biblioteca. La ritiene una lusinga del secolo… Sta per lo più in chiesa a meditare, a pregare…”
“E’ vecchio?” chiese Guglielmo esitando.
“Da quando non lo vedete?”
“Da molti anni.”
“E’ stanco. Molto distaccato dalle cose di questo mondo. Ha sessantotto anni. Ma credo abbia ancora l’animo della sua gioventù.”
“Lo cercherò subito, vi ringrazio.”
L’Abate gli chiese se non voleva unirsi alla comunità per il desinare, dopo sesta. Guglielmo disse che aveva appena mangiato, e molto confortevolmente, e che avrebbe preferito vedere subito Ubertino. L’Abate salutò.
Stava uscendo dalla cella quando si levò dalla corte un urlo straziante, come di persona ferita a morte, cui seguirono altri lamenti altrettanto atroci. “Cos’è?!” chiese Guglielmo, sconcertato.
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