L’Abate prese la lettera coi sigilli imperiali e disse che in ogni caso la venuta di Guglielmo era stata preceduta da altre missive di suoi confratelli (dappoiché, mi dissi io con un certo orgoglio, è difficile cogliere un abate benedettino di sorpresa), poi pregò il cellario di condurci ai nostri alloggiamenti, mentre gli stallieri ci prendevano le cavalcature. L’Abate si ripromise di visitarci più tardi quando ci fossimo rifocillati, ed entrammo nella grande corte dove gli edifici dell’abbazia si estendevano lungo tutto il dolce pianoro che smussava in una morbida conca — o alpe — la sommità del monte.
Della disposizione dell’abbazia avrò occasione di dire più volte, e più minutamente. Dopo il portale (che era l’unico varco nelle mura di cinta) si apriva un viale alberato che conduceva alla chiesa abbaziale. A sinistra del viale si stendeva una vasta zona di orti e, come poi seppi, il giardino botanico, intorno ai due edifici dei balnea e dell’ospedale ed erboristeria, che costeggiavano la curva delle mura. Sul fondo, a sinistra della chiesa, si ergeva l’Edificio, separato dalla chiesa da una spianata coperta di tombe. Il portale nord della chiesa guardava il torrione sud dell’Edificio, che offriva frontalmente agli occhi del visitatore il torrione occidentale, quindi a sinistra si legava alle mura e sprofondava turrito verso l’abisso, su cui si protendeva il torrione settentrionale, che si vedeva di sghimbescio. A destra della chiesa si stendevano alcune costruzioni che le stavano a ridosso, e intorno al chiostro: certo il dormitorio, la casa dell’Abate e la casa dei pellegrini a cui eravamo diretti e che raggiungemmo traversando un bel giardino. Sul lato destro, al di là di una vasta spianata, lungo le mura meridionali e continuando a oriente dietro la chiesa, una serie di quartieri colonici, stalle, mulini, frantoi, granai e cantine, e quella che mi parve essere la casa dei novizi. La regolarità del terreno, appena ondulato, aveva permesso agli antichi costruttori di quel luogo sacro di rispettare i dettami dell’orientamento, meglio di quanto avrebbero potuto pretendere Onorio Augustoduniense o Guglielmo Durando. Dalla posizione del sole in quell’ora del giorno, mi avvidi che il portale si apriva perfettamente a occidente, così che il coro e l’altare fossero rivolti a oriente; e il sole di buon mattino poteva sorgere risvegliando direttamente i monaci nel dormitorio e gli animali nelle stalle. Non vidi abbazia più bella e mirabilmente orientata, anche se in seguito conobbi San Gallo, e Cluny, e Fontenay, e altre ancora, forse più grandi ma meno proporzionate. Diversamente dalle altre, questa si segnalava però per la mole incommensurabile dell’Edificio. Non avevo l’esperienza di un maestro muratore, ma mi avvidi subito che esso era molto più antico delle costruzioni che lo attorniavano,nato forse per altri scopi, e che l’insieme abbaziale gli si era disposto intorno in tempi posteriori, ma in modo che l’orientamento della grande costruzione si adeguasse a quello della chiesa, o questa a quello. Perché l’architettura è tra tutte le arti quella che più arditamente cerca di riprodurre nel suo ritmo l’ordine dell’universo, che gli antichi chiamavano kosmos , e cioè ornato, in quanto è come un grande animale su cui rifulge la perfezione e la proporzione di tutte le sue membra. E sia lodato il Creatore Nostro che, come dice Agostino, ha stabilito tutte le cose in numero, peso e misura.
Dove Guglielmo ha una istruttiva conversazione con l’Abate
Il cellario era uomo pingue e di aspetto volgare ma gioviale, canuto ma ancor robusto, piccolo ma veloce. Ci condusse alle nostre celle nella casa dei pellegrini. O meglio, ci condusse alla cella assegnata al mio maestro, promettendomi che per il giorno seguente ne avrebbe liberata una anche per me in quanto, sebbene novizio, ero ospite loro, e dunque dovevo essere trattato con ogni onore. Per quella notte avrei potuto dormire in una vasta e lunga nicchia che si apriva nella parete della cella, su cui aveva fatto disporre della buona paglia fresca. Cosa che, aggiunse, si faceva talora per i servi di qualche signore che desiderava essere vegliato durante il suo sonno.
Poi i monaci ci portarono vino, cacio, olive, pane e della buona uva passa, e ci lasciarono a rifocillarci. Mangiammo e bevemmo con molto gusto. Il mio maestro non aveva le abitudini austere dei benedettini e non amava mangiare in silenzio. Peraltro parlava sempre di cose così buone e sagge che era come se un monaco ci leggesse le vite dei santi.
Quel giorno non mi trattenni dall’interrogarlo ancora sul fatto del cavallo.
“Però,” dissi, “quando voi avete letto le tracce sulla neve e sui rami, non conoscevate ancora Brunello. In un certo modo quelle tracce ci parlavano di tutti i cavalli, o almeno di tutti i cavalli di quella specie. Non dobbiamo dunque dire che il libro della natura ci parla solo per essenze, come insegnano molti insigni teologi?”
“Non del tutto caro Adso,” mi rispose il maestro. “Certo quel tipo di impronte mi esprimeva, se vuoi, il cavallo come verbum mentis, e me l’avrebbe espresso ovunque l’avessi trovato. Ma l’impronta in quel luogo e in quell’ora del giorno mi diceva che almeno uno tra tutti i cavalli possibili era passato di lì. Così che io mi trovavo a mezza strada tra l’apprendimento del concetto di cavallo e la conoscenza di un cavallo individuale. E in ogni caso quel che io conoscevo del cavallo universale mi era dato dalla traccia, che era singolare. Potrei dire che in quel momento io ero prigioniero tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un’idea universale. Se tu vedi qualcosa da lontano, e non capisci cosa sia, ti accontenterai di definirlo come un corpo esteso. Quando ti si sarà avvicinato lo definirai allora come un animale, anche se non saprai ancora se sia un cavallo o un asino. E infine, quando esso sarà più vicino, potrai dire che è un cavallo anche se non saprai ancora se Brunello o Favello. E solo quando sarai alla giusta distanza tu vedrai che è Brunello (ovvero quel cavallo e non un altro, comunque tu decida di chiamarlo). E quella sarà la conoscenza piena, l’intuizione del singolare. Così io un’ora fa ero pronto ad attendermi tutti i cavalli, ma non per la vastità del mio intelletto, bensì per la pochezza della mia intuizione. E la fame del mio intelletto è stata saziata solo quando ho visto il cavallo singolo, che i monaci portavano per il morso. Solo allora ho veramente saputo che il mio ragionare di prima mi aveva condotto vicino alla verità. Così le idee, che io usavo prima per figurarmi un cavallo che non avevo ancora visto, erano puri segni, come erano segni dell’idea di cavallo le impronte sulla neve: e si usano segni e segni di segni solo quando ci fanno difetto le cose.”
Altre volte lo avevo udito parlare con molto scetticismo delle idee universali e gran rispetto delle cose individuali: e anche in seguito mi parve che questa tendenza gli provenisse sia dall’essere britannico che dall’essere francescano. Ma quel giorno non aveva forze sufficienti per affrontare dispute teologiche: sì che mi rannicchiai nello spazio che mi era stato concesso, mi avvolsi in una coperta e caddi in un sonno profondo.
Chi fosse entrato avrebbe potuto scambiarmi per un fagotto. E così fece certamente l’Abate quando venne a visitare Guglielmo verso l’ora terza. Fu così che io potei ascoltare inosservato il loro primo colloquio. E senza malizia, perché il manifestarmi di colpo al visitatore sarebbe stato più scortese che il celarmi, come feci, con umiltà.
Giunse pertanto Abbone. Si scusò per l’intrusione, rinnovò il suo benvenuto e disse che doveva parlare a Guglielmo, in privato, di cosa assai grave.
Cominciò a congratularsi con lui per l’abilità con cui si era condotto nella storia del cavallo, e chiese come mai egli aveva saputo dar notizie tanto sicure di una bestia che non aveva mai vista. Guglielmo gli spiegò succintamente e con distacco la via che aveva seguito, e l’Abate molto si rallegrò per il suo acume. Disse che non si sarebbe atteso di meno da un uomo che era stato preceduto da una fama di grande sagacia. Gli disse che aveva ricevuto una lettera dall’Abate di Farfa che non solo gli parlava della missione affidata a Guglielmo dall’imperatore (della quale avrebbero poi discusso nei giorni seguenti) ma anche gli diceva che in Inghilterra e in Italia il mio maestro era stato inquisitore in alcuni processi, dove si era distinto per la sua perspicacia, non disgiunta da grande umanità.
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