Fanciullo com’ero, la cosa che di lui subito mi aveva colpito, erano certi ciuffi di peli giallastri che gli uscivano dalle orecchie, e le sopracciglia folte e bionde. Poteva egli avere cinquanta primavere ed era dunque già molto vecchio, ma muoveva il suo corpo instancabile con una agilità che a me sovente faceva difetto. La sua energia pareva inesauribile, quando lo coglieva un eccesso di attività. Ma di tanto in tanto, quasi il suo spirito vitale partecipasse del gambero, recedeva in momenti di inerzia e lo vidi per ore stare sul suo giaciglio in cella, pronunciando a malapena qualche monosillabo, senza contrarre un solo muscolo del viso. In quelle occasioni appariva nei suoi occhi un’espressione vacua e assente, e avrei sospettato che fosse sotto l’impero di qualche sostanza vegetale capace di dar visioni, se la palese temperanza che regolava la sua vita non mi avesse indotto a respingere questo pensiero. Non nascondo tuttavia che, nel corso del viaggio, si era fermato talora sul ciglio di un prato, ai bordi di una foresta, a raccogliere qualche erba (credo sempre la stessa): e si poneva a masticarla con volto assorto. Parte ne teneva con sé, e la mangiava nei momenti di maggior tensione (e sovente ne avemmo all’abbazia!). Quando una volta gli chiesi di che si trattasse, disse sorridendo che un buon cristiano può imparare talora anche dagli infedeli; e quando gli domandai di assaggiarne, mi rispose che, come per i discorsi, anche per i semplici ve ne sono di paidikoi , di ephebikoi e di gynaikoi e via dicendo, così che le erbe che sono buone per un vecchio francescano non son buone per un giovane benedettino.
Nel tempo che stemmo insieme non avemmo occasione di far vita molto regolare: anche all’abbazia vegliammo di notte e cademmo stanchi di giorno, né partecipammo regolarmente gli uffici sacri. Di rado tuttavia, in viaggio, vegliava oltre compieta, e aveva abitudini parche. Qualche volta, come accadde all’abbazia passava tutta la giornata muovendosi per l’orto, esaminando le piante come fossero crisopazi o smeraldi, e lo vidi aggirarsi per la cripta del tesoro guardando uno scrigno tempestato di smeraldi e crisopazi come fosse un cespuglio di stramonio. Altre volte stava un giorno intero nella sala grande della biblioteca sfogliando manoscritti come a cercarvi null’altro che il suo piacere (quando intorno a noi si moltiplicavano i cadaveri di monaci orrendamente uccisi). Un giorno lo trovai che passeggiava nel giardino senza alcun fine apparente, come se non dovesse render conto a Dio delle sue opere. Nell’ordine mi avevano insegnato ben altro modo di dividere il mio tempo, e glielo dissi. Ed egli rispose che la bellezza del cosmo è data non solo dall’unità nella varietà, ma anche dalla varietà nell’unità. Mi parve una risposta dettata da ineducata empiria, ma appresi in seguito che gli uomini della sua terra definiscono spesso le cose in modi in cui pare che la forza illuminante della ragione abbia pochissimo ufficio.
Durante il periodo che trascorremmo all’abbazia gli vidi sempre le mani coperte dalla polvere dei libri, dall’oro delle miniature ancora fresche, da sostanze giallastre che aveva toccato nell’ospedale di Severino. Pareva non potesse pensare se non con le mani, cosa che allora mi pareva più degna di un meccanico (e mi era stato insegnato che il meccanico è moechus, e commette adulterio nei confronti della vita intellettuale a cui dovrebbe essere unito in castissimo sponsale): ma anche quando le sue mani toccavano cose fragilissime, come certi codici dalle miniature ancor fresche, o pagine corrose dal tempo e friabili come pane azzimo, egli possedeva, mi parve, una straordinaria delicatezza di tatto, la stessa che egli usava nel toccare le sue macchine. Dirò infatti che quest’uomo curioso portava seco, nella sua sacca da viaggio, strumenti che mai avevo visto prima di allora, e che egli definiva come le sue meravigliose macchine. Le macchine, diceva, sono effetto dell’arte, che è scimmia della natura, e di essa riproducono non le forme ma la stessa operazione. Egli mi spiegò così i portenti dell’orologio, dell’astrolabio e del magnete. Ma all’inizio temetti che si trattasse di stregoneria, e finsi di dormire certe notti serene in cui egli si poneva (in mano uno strano triangolo) a osservare le stelle. I francescani che avevo conosciuto in Italia e nella mia terra erano uomini semplici, sovente illetterati, e mi stupii con lui della sua sapienza. Ma egli mi disse sorridendo che i francescani delle sue isole erano di stampo diverso: «Ruggiero Bacone, che io venero quale maestro, ci ha insegnato che il piano divino passerà un giorno per la scienza delle macchine, che è magìa naturale e santa. E un giorno per forza di natura si potranno fare strumenti di navigazione per cui le navi vadano unico homine regente, e ben più rapide di quelle spinte da vela o da remi; e vi saranno carri «ut sine animale moveantur cum impetu inaestimabili, et instrumenta volandi et homo sedens in medio instrumentis revolvens aliquod ingenium per quod alae artificialiter composita aerem verberent, ad modum avis volantis». E strumenti piccolissimi che sollevino pesi infiniti e veicoli che permettano di viaggiare sul fondo del mare.»
Quando gli chiesi dove fossero queste macchine, mi disse che erano già state fatte nell’antichità, e alcune persino ai tempi nostri: “Eccetto lo strumento per volare, che non vidi, né conobbi chi lo avesse visto, ma conosco un sapiente che lo ha pensato. E si possono fare ponti che valichino i fiumi senza colonne o altro sostentamento e altre macchine inaudite. Ma non devi preoccuparti se non ci sono ancora, perché non vuol dire che non ci saranno. E io ti dico che Dio vuole che ci siano, e certo son già nella sua mente, anche se il mio amico di Occam nega che le idee esistano in tal modo, e non perché possiamo decidere della natura divina, ma proprio perché non possiamo porle alcun limite.” Né fu questa l’unica proposizione contraddittoria che gli sentii enunciare: ma anche ora che sono vecchio e più saggio di allora non ho definitivamente compreso come egli potesse aver tanta fiducia nel suo amico di Occam e giurare al tempo stesso sulle parole di Bacone, come era solito fare. E’ pur vero che quelli erano tempi oscuri in cui un uomo saggio doveva pensare cose in contraddizione tra loro.
Ecco, ho detto di frate Guglielmo cose forse insensate, quasi a raccogliere sin dall’inizio le impressioni sconnesse che ne ebbi allora. Chi egli fu, e cosa facesse, mio buon lettore, potrai forse meglio dedurre dalle azioni che operò nei giorni che trascorremmo all’abbazia. Né ti ho promesso un disegno compiuto, bensì un elenco di fatti (questi sì) mirabili e terribili.
Così conoscendo giorno per giorno il mio maestro, e trascorrendo le lunghe ore di marcia in lunghissimi conversari di cui, se il caso, dirò a poco a poco, giungemmo alle falde del monte su cui si ergeva l’abbazia. Ed è ora che, come noi allora facemmo, a essa si approssimi il mio racconto, e possa la mia mano non tremare nell’accingermi a dire quanto poi accadde.
Dove si arriva ai piedi dell’abbazia e Guglielmo dà prova di grande acume
Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole.
Come ci inerpicavamo per il sentiero scosceso che si snodava intorno al monte, vidi l’abbazia. Non mi stupirono di essa le mura che la cingevano da ogni lato, simili ad altre che vidi in tutto il mondo cristiano, ma la mole di quello che poi appresi essere l’Edificio. Era questa una costruzione ottagonale che a distanza appariva come un tetragono (figura perfettissima che esprime la saldezza e l’imprendibilità della Città di Dio), i cui lati meridionali si ergevano sul pianoro dell’abbazia, mentre quelli settentrionali sembravano crescere dalle falde stesse del monte, su cui s’innervavano a strapiombo. Dico che in certi punti, dal basso, sembrava che la roccia si prolungasse verso il cielo, senza soluzione di tinte e di materia, e diventasse a un certo punto mastio e torrione (opera di giganti che avessero gran familiarità e con la terra e col cielo). Tre ordini di finestre dicevano il ritmo trino della sua sopraelevazione, così che ciò che era fisicamente quadrato sulla terra, era spiritualmente triangolare nel cielo. Nell’appressarvici maggiormente, si capiva che la forma quadrangolare generava, a ciascuno dei suoi angoli, un torrione eptagonale, di cui cinque lati si protendevano all’esterno — quattro dunque degli otto lati dell’ottagono maggiore generando quattro eptagoni minori, che all’esterno si manifestavano come pentagoni. E non è chi non veda l’ammirevole concordia di tanti numeri santi, ciascuno rivelante un sottilissimo senso spirituale. Otto il numero della perfezione d’ogni tetragono, quattro il numero dei vangeli, cinque il numero delle zone del mondo, sette il numero dei doni dello Spirito Santo. Per la mole, e per la forma, l’Edificio mi apparve come più tardi avrei visto nel sud della penisola italiana Castel Ursino o Castel dal Monte, ma per la posizione inaccessibile era di quelli più tremendo, e capace di generare timore nel viaggiatore che vi si avvicinasse a poco a poco. E fortuna che, essendo una limpidissima mattinata invernale, la costruzione non mi apparve quale la si vede nei giorni di tempesta.
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