Umberto Eco
Il nome della rosa
Naturalmente, un manoscritto
Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). Il libro, corredato da indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell’ordine benedettino. La dotta trouvaille (mia, terza dunque nel tempo) mi rallegrava mentre mi trovavo a Praga in attesa di una persona cara. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città. Riuscivo fortunosamente a raggiungere la frontiera austriaca a Linz, di lì mi portavo a Vienna dove mi ricongiungevo con la persona attesa, e insieme risalivamo il corso del Danubio.
In un clima mentale di grande eccitazione leggevo, affascinato, la terribile storia di Adso da Melk, e tanto me ne lasciai assorbire che quasi di getto ne stesi una traduzione, su alcuni grandi quaderni della Papéterie Joseph Gibert, su cui è tanto piacevole scrivere se la penna è morbida. E così facendo arrivammo nei pressi di Melk, dove ancora, a picco su un’ansa del fiume, si erge il bellissimo Stift più volte restaurato nei secoli. Come il lettore avrà immaginato, nella biblioteca del monastero non trovai traccia del manoscritto di Adso.
Prima di arrivare a Salisburgo, una tragica notte in un piccolo albergo sulle rive del Mondsee, il mio sodalizio di viaggio bruscamente si interruppe e la persona con cui viaggiavo scomparve portando seco il libro dell’abate Vallet, non per malizia, ma a causa del modo disordinato e abrupto con cui aveva avuto fine il nostro rapporto. Mi rimase così una serie di quaderni manoscritti di mio pugno, e un gran vuoto nel cuore.
Alcuni mesi dopo a Parigi decisi di andare a fondo nella mia ricerca. Delle poche notizie che avevo tratto dal libro francese, mi rimaneva il riferimento alla fonte, eccezionalmente minuto e preciso:
«Vetera analecta, sive collectio veterum aliquot opera et opusculorum omnis generis, carminum, epistolarum, diplomaton, epitaphiorum, et, cum itinere germanico, adaptationibus aliquot disquisitionibus R.P.D. Joannis Mabillon, Presbiteri ac Monachi Ord. Sancti Benedicti e Congregatione S. Mauri. — Nova Editio cui accessere Mabilonii vita et aliquot opuscula, scilicet Dissertatio de Pane Eucharistico, Azymo et Fermentatio , ad Eminentiss . Cardinalem Bona . Subjungitur opusculum Eldefonsi Hispaniensis Episcopi de eodem argumentum Et Eusebii Romani ad Theophilum Gallum epistola , De cultu sanctorum ignotorum, Parisiis, apud Levesque, ad Pontem S. Michaelis, MDCCXXI, cum privilegio Regis .»
Trovai subito i Vetera Analecta alla biblioteca Sainte Geneviève, ma con mia grande sorpresa l’edizione reperita discordava per due particolari: anzitutto l’editore, che era Montalant, ad Ripam P.P. Augustinianorum (prope Pontem S. Michaelis) e poi la data, di due anni posteriore. Inutile dire che questi analecta non contenevano alcun manoscritto di Adso o Adson da Melk — e si tratta anzi, come ciascuno può controllare, di una raccolta di testi di media e breve lunghezza, mentre la storia trascritta dal Vallet si estendeva per alcune centinaia di pagine. Consultai all’epoca medievalisti illustri come il caro e indimenticabile Etienne Gilson, ma fu chiaro che gli unici Vetera Analecta erano quelli che avevo visto a Sainte Geneviève. Una puntata all’Abbaye de la Source, che sorge nei dintorni di Passy, e una conversazione con l’amico Dom Arne Lahnestedt mi convinsero altresì che nessun abate Vallet aveva pubblicato libri coi torchi (peraltro inesistenti) dell’abbazia. E’ nota la trascuratezza degli eruditi francesi nel dare indicazioni bibliografiche di qualche attendibilità, ma il caso superava ogni ragionevole pessimismo. Incominciai a ritenere che mi fosse capitato tra le mani un falso. Ormai lo stesso libro del Vallet era irrecuperabile (o almeno non ardivo andarlo a richiedere a chi me lo aveva sottratto). E non mi rimanevano che le mie note, delle quali cominciavo ormai a dubitare.
Vi sono momenti magici, di grande stanchezza fisica e intensa eccitazione motoria, in cui si danno visioni di persone conosciute in passato (“en me retraçant ces details, j’en suis à me demander s’ils sont réels, ou bien si je les ai rêvés”). Come appresi più tardi dal bel libretto dell’Abbé de Bucquoy, si danno altresì visioni di libri non ancora scritti.
Se non fosse successo qualcosa di nuovo sarei ancora qui a domandarmi da dove venga la storia di Adso da Melk, senonché nel 1970, a Buenos Aires, curiosando sui banchi di un piccolo libraio antiquario in Corrientes, non lontano dal più insigne Patio del Tango di quella grande strada, mi capitò tra le mani la versione castigliana di un libretto di Milo Temesvar , Dell’uso degli specchi nel gioco degli scacchi , che già avevo avuto occasione di citare (di seconda mano) nel mio Apocalittici e integrati , recensendo il suo più recente I venditori di Apocalisse . Si trattava della traduzione dell’ormai introvabile originale in lingua georgiana (Tibilisi, 1934) e quivi, con mia grande sorpresa, lessi copiose citazioni dal manoscritto di Adso, salvo che la fonte non era né il Vallet né il Mabillon, bensì padre Athanasius Kircher (ma quale opera?). Un dotto — che non ritengo opportuno nominare — mi ha poi assicurato che (e citava indici a memoria) il grande gesuita non ha mai parlato di Adso da Melk. Ma le pagine di Temesvar erano sotto i miei occhi e gli episodi a cui si riferiva erano assolutamente analoghi a quelli del manoscritto tradotto dal Vallet (in particolare, la descrizione del labirinto non lasciava luogo ad alcun dubbio). Checché ne abbia poi scritto Beniamino Placido [1] La Repubblica, 22 settembre 1977.
, l’abate Vallet era esistito e così certamente Adso da Melk.
Ne conclusi che le memorie di Adso sembravano giustamente partecipare alla natura degli eventi di cui egli narra: avvolte da molti e imprecisi misteri, a cominciare dall’autore, per finire alla collocazione dell’abbazia di cui Adso tace con tenace puntigliosità, così che le congetture permettono di disegnare una zona imprecisa tra Pomposa e Conques, con ragionevoli probabilità che il luogo sorgesse lungo il dorsale appenninico, tra Piemonte, Liguria e Francia (come dire tra Lerici e Turbia). Quanto all’epoca in cui si svolgono gli eventi descritti, siamo alla fine del novembre 1327; quando invece scriva l’autore è incerto. Calcolando che si dice novizio nel ’27 e ormai vicino alla morte quando stende le sue memorie, possiamocongetturare che il manoscritto sia stato stilato negli ultimi dieci o vent’anni del XIV secolo.
A ben riflettere, assai scarse erano le ragioni che potessero inclinarmi a dare alle stampe la mia versione italiana di una oscura versione neogotica francese di una edizione latina secentesca di un’opera scritta in latino da un monaco tedesco sul finire del trecento.
Anzitutto, quale stile adottare? La tentazione di rifarmi a modelli italiani dell’epoca andava respinta come del tutto ingiustificata: non solo Adso scrive in latino, ma è chiaro da tutto l’andamento del testo che la sua cultura (o la cultura dell’abbazia che così chiaramente lo influenza) è molto più datata; si tratta chiaramente di una somma plurisecolare di conoscenze e di vezzi stilistici che si collegano alla tradizione basso medievale latina. Adso pensa e scrive come un monaco rimasto impermeabile alla rivoluzione del volgare, legato alle pagine ospitate nella biblioteca di cui narra, formatosi su testi patristico-scolastici, e la sua storia (al di là dei riferimenti ed avvenimenti del XIV secolo, che pure Adso registra tra mille perplessità, e sempre per sentito dire) avrebbe potuto essere scritta, quanto a lingua e a citazioni erudite, nel XII o nel XIII secolo.
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