Umberto Eco - Il nome della rosa

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Ultima settimana del novembre 1327. Ludovico il Bavaro assedia Pisa e si dispone a scendere verso Roma, il papa è ad Avignone e insiste per avere al suo cospetto Michele da Cesena, generale dei francescani, i quali qualche anno prima hanno proclamato a Perugia che Cristo non ha avuto proprietà alcuna. Dottrina eretica, come eretici sono i fraticelli, i cui roghi illuminano l’Italia e la Francia, come eretiche erano le bande armate di fra Dolcino, debellato e bruciato da due decenni. Su questo sfondo storico si svolge la vicenda di questo romanzo, ovvero del manoscritto misterioso di Adso da Melk, un novizio benedettino che ha accompagnato in una abbazia dell’alta Italia frate Guglielmo da Baskerville, incaricato di una sottile e imprecisa missione diplomatica. Ex inquisitore, amico di Guglielmo di Occam e di Marsilio da Padova, frate Guglielmo si trova a dover dipanare una serie di misteriosi delitti (sette in sette giorni, perpetrati nel chiuso della cinta abbaziale) che insanguinano una biblioteca labirintica e inaccessibile. Guglielmo risolverà il caso, forse troppo tardi, in termini di giorni, forse troppo presto, in termini di secoli. E per farlo dovrà decifrare indizi di ogni genere, dal comportamento dei santi a quello degli eretici, dalle scritture negromantiche al linguaggio delle erbe, da manoscritti in lingue ignote alle mosse diplomatiche degli uomini del potere. Difficile da definire (gothic novel, cronaca medievale, romanzo poliziesco, racconto ideologico a chiave, allegoria) questo romanzo (la cui storia si intreccia con la Storia — perché l’autore, forse mendacemente, asserisce che di suo non vi è una sola parola) può forse essere letto in tre modi. La prima categoria di lettori sarà avvinta dalla trama e dai colpi di scena, e accetterà anche le lunghe discussioni libresche, e i dialoghi filosofici, perché avvertirà che proprio in quelle pagine svagate si annidano i segni, le tracce, i sintomi rivelatori. La seconda categoria si appassionerà al dibattito di idee, e tenterà connessioni (che l’autore si rifiuta di autorizzare) con la nostra attualità. La terza si renderà conto che questo testo è un tessuto di altri testi, un «giallo» di citazioni, un libro fatto di libri. A ciascuna delle tre categorie l’autore comunque rifiuta di rivelare che cosa il libro voglia dire. Se avesse voluto sostenere una tesi, avrebbe scritto un saggio (come tanti altri che ha scritto). Se ha scritto un romanzo è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare.
Umberto Eco è nato ad Alessandria (Piemonte) nel 1932. Ordinario di semiotica all’università di Bologna, è autore di molte opere saggistiche. Ha esordito nel 1956 con uno studio sull’estetica medievale. Il suo ultimo libro, del 1979, riguarda la situazione del lettore nei labirinti della narratività.

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“Dove avete sepolto il povero corpo?” domandò Guglielmo.

“Nel cimitero, naturalmente,” rispose l’Abate. “Forse lo avrete notato, si stende tra il lato settentrionale della chiesa, l’Edificio e l’orto.”

“Vedo,” disse Guglielmo, “e vedo che il vostro problema è il seguente. Se quell’infelice si fosse, Dio non voglia, suicidato (poiché non si poteva pensare che fosse caduto accidentalmente) il giorno dopo avreste trovato una di quelle finestre aperte, mentre le avete ritrovate tutte chiuse, e senza che ai piedi di alcuna apparissero tracce d’acqua.”

L’Abate era uomo, lo dissi, di grande e diplomatica compostezza, ma questa volta ebbe un movimento di sorpresa che gli tolse ogni traccia di quel decoro che si addice alla persona grave e magnanima, come vuole Aristotele: “Chi ve lo ha detto?”

“Me lo avete detto voi,” disse Guglielmo. “Se la finestra fosse stata aperta, avreste subito pensato che egli vi si era gettato. Da come ho potuto giudicare dall’esterno, si tratta di grandi finestre a vetrate opache e finestre di quel tipo non si aprono di solito, in edifici di questa mole, ad altezza d’uomo. Dunque se fosse stata aperta, essendo impossibile che lo sciagurato vi si fosse affacciato e avesse perduto l’equilibrio, non sarebbe restato che pensare a un suicidio. Nel qual caso non lo avreste lasciato seppellire in terra consacrata. Ma poiché lo avete seppellito cristianamente, le finestre dovevano essere chiuse. Perché se erano chiuse, non avendo io incontrato neppure nei processi di stregoneria un morto impenitente a cui Dio o il diavolo abbiano concesso di risalire dall’abisso per cancellar le tracce del suo misfatto, è evidente che il presunto suicida è stato piuttosto spinto, vuoi da mano umana vuoi da forza diabolica. E voi vi chiedete chi possa averlo, non dico spinto nell’abisso, ma issato nolente sino al davanzale, e siete turbato perché una forza malefica, naturale o soprannaturale che sia, si aggira ora per l’abbazia.”

“E’ così…” disse l’Abate, e non era chiaro se confermasse le parole di Guglielmo o rendesse ragione a se stesso delle ragioni che Guglielmo aveva così ammirevolmente prodotto. “Ma come fate a sapere che non vi era acqua ai piedi di alcuna vetrata?”

“Poiché mi avete detto che soffiava l’austro e l’acqua non poteva essere spinta contro finestre che si aprono a oriente.”

“Non mi avevano detto abbastanza delle vostre virtù,” disse l’Abate. “E avete ragione, non c’era acqua, e ora so perché. Le cose sono andate come dite. E ora capite la mia angoscia. Già sarebbe stato grave se uno dei miei monaci si fosse macchiato dell’abominevole peccato di suicidio. Ma ho ragioni di ritenere che un altro di loro si sia macchiato di un peccato altrettanto terribile. E fosse solo quello…”

“Anzitutto, perché uno dei monaci? Nell’abbazia vi sono molte altre persone, stallieri, caprai, servitori…”

“Certo, è un’abbazia piccola ma ricca,” ammise con sussiego l’Abate. “Centocinquanta famigli per sessanta monaci. Ma tutto è avvenuto nell’Edificio. Quivi, come forse già sapete, anche se al primo piano vi sono e le cucine e il refettorio, ai due piani superiori vi sono lo scriptorium e la biblioteca. Dopo la cena l’Edificio viene chiuso e vi è una regola rigidissima che proibisce a chiunque di accedervi,” indovinò la domanda di Guglielmo e aggiunse subito, ma chiaramente a malincuore, “compresi i monaci naturalmente, ma…”

“Ma?”

“Ma escludo assolutamente, assolutamente capite, che un famiglio abbia avuto il coraggio di penetrarvi di notte.” Nei suoi occhi passò come un sorriso di sfida, ma fu rapido come il baleno, o una stella cadente. “Diciamo che avrebbero paura, sapete… talora gli ordini dati ai semplici vanno rinforzati con qualche minaccia, come il presagio che a chi disubbidisce possa accadere qualcosa di terribile, e per forza soprannaturale. Un monaco invece…”

“Capisco.”

“Non solo, ma un monaco potrebbe avere altre ragioni per avventurarsi in un luogo interdetto, voglio dire ragioni… come dire? Ragionevoli, anche se contrarie alla regola…”

Guglielmo si accorse del disagio dell’Abate e fece una domanda che forse mirava a sviare il discorso, ma che produsse un disagio altrettanto grande.

«Parlando di un possibile omicidio avete detto «e fosse solo quello». Che volevate dire?»

“Ho detto così? Ebbene, non si uccide senza ragione, per quanto perversa. E tremo al pensiero della perversità delle ragioni che possono aver spinto un monaco a uccidere un confratello. Ecco. E’ così.”

“Non c’è altro?”

“Non c’è altro che io possa dirvi.”

“Volete dire che non c’è altro che voi abbiate potere di dire?”

“Vi prego frate Guglielmo, fratello Guglielmo,” e l’Abate accentuò sia frate che fratello. Guglielmo arrossì vivamente e commentò:

“Eris sacerdos in aeternum.”

“Grazie,” disse l’Abate.

O Signore Iddio, quale mistero terribile sfiorarono in quel momento i miei imprudenti superiori, spinto l’uno dall’angoscia e l’altro dalla curiosità. Perché, novizio che si avviava ai misteri del santo sacerdozio di Dio, anch’io umile fanciullo compresi che l’Abate sapeva qualcosa ma lo aveva appreso sotto il sigillo della confessione. Egli doveva aver saputo dalle labbra di qualcuno qualche particolare peccaminoso che poteva avere relazione con la tragica fine di Adelmo. Per questo forse pregava frate Guglielmo di scoprire un segreto di cui egli sospettava senza poterlo palesare a nessuno, e sperava che il mio maestro facesse luce con le forze dell’intelletto su quanto egli doveva avvolgere d’ombra in forza del sublime imperio della carità.

“Bene,” disse allora Guglielmo, “potrò porre domande ai monaci?”

“Potrete.”

“Potrò aggirarmi liberamente per l’abbazia?”

“Ve ne conferisco facoltà.”

“Mi investirete di questa missione coram monachos?”

“Questa sera stessa.”

“Comincerò però oggi, prima che i monaci sappiano di cosa mi avete incaricato. E inoltre desideravo molto, non ultima ragione del mio passaggio qui, visitare la vostra biblioteca, di cui si parla con ammirazione in tutte le abbazie della cristianità.”

L’Abate si alzò quasi di scatto, col viso molto teso. “Potrete aggirarvi per tutta l’abbazia, ho detto. Non certo per l’ultimo piano dell’Edificio, nella biblioteca.”

“Perché?”

“Avrei dovuto spiegarvelo prima, e credevo che lo sapeste. Voi sapete che la nostra biblioteca non è come le altre…”

“So che ha più libri di ogni altra biblioteca cristiana. So che a petto dei vostri armaria quelli di Bobbio o di Pomposa, di Cluny o di Fleury sembrano la stanza di un fanciullo che appena si inizi all’abaco. So che i seimila codici che vantava Novalesa cento e più anni fa sono poco a petto dei vostri, e forse molti di quelli sono ora qui. So che la vostra abbazia è l’unica luce che la cristianità possa opporre alle trentasei biblioteche di Bagdad, ai diecimila codici del visir Ibn al-Alkami, che il numero delle vostre bibbie eguaglia i duemilaquattrocento corani che vanta il Cairo, e che la realtà dei vostri armaria è luminosa evidenza contro la superba leggenda degli infedeli che anni fa volevano (intimi come sono del principe della menzogna) la biblioteca di Tripoli ricca di sei milioni di volumi e abitata da ottantamila commentatori e duecento scribi.”

“Così è, siano rese lodi al cielo.”

“So che tra i monaci che vivono tra voi molti vengono da altre abbazie sparse in tutto il mondo: chi per poco tempo, onde copiare manoscritti introvabili altrove e portarli poi alla propria sede, non senza avervi portato in cambio qualche altro manoscritto introvabile che voi copierete e inserirete nel vostro tesoro; e chi per lunghissimo tempo, per restarvi talora sino alla morte, perché solo qui può trovare le opere che illuminino la sua ricerca. E dunque avete tra voi germani, daci, ispani, francesi e greci. So che l’imperatore Federico, molti e molti anni fa, chiese a voi di compilargli un libro sulle profezie di Merlino e di tradurlo poi in arabo, per inviarlo in dono al soldano d’Egitto. So infine che un’abbazia gloriosa come Murbach, in questi tempi tristissimi, non ha più un solo scriba, che a San Gallo sono rimasti pochi monaci che sappiano scrivere, che ormai è nelle città che sorgono corporazioni e gilde composte di secolari che lavorano per le università e che solo la vostra abbazia rinnova di giorno in giorno, che dico?, porta a fastigi sempre più alti le glorie del vostro ordine…”

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