Il conte, imprecando, rimbombò verso l’uscita. I restanti ospiti si misero a guardare con curiosità l’afflosciato Achtyrzev, che faceva proprio pena e nemmeno compiva il benché minimo sforzo per risollevarsi.
«Qui siete voi l’unico che somigli a un essere umano», sussurrò Amalia Kazimirovna a Fandorin, dirigendosi verso il corridoio. «Portatelo via. E non abbandonatelo.»
Quasi subito apparve John lo spilungone, che aveva cambiato la livrea con una finanziera nera dalla pettina inamidata, e aiutò a portare lo studente fino alla porta dove gli calcò il cilindro sul capo. La Bežezkaja non uscì a salutare e, considerata la cupa fisionomia del maggiordomo, Erast Petrovič capì che era ora di andarsene.
in cui serie spiacevolezze attendono il protagonista
Sulla strada, respirando l’aria fresca, Achtyrzev si riprese un poco, riusciva a star fermo sulle gambe, senza barcollare, ed Erast Petrovič" credette di non doverlo più sostenere sotto il gomito.
«Andiamo fino a via Sretenka», gli disse. «Là vi troverò un vetturino. C’è molto da qui fino a casa vostra?»
«Fino a casa?» Nella luce ineguale del fanale al cherosene il pallido viso dello studente sembrava una maschera. «No, a casa per nessuna ragione al mondo! Andiamocene insieme da qualche parte, che ne dite? Ho voglia di chiacchierare un po’. L’avete visto voi… come mi trattano quelli. Come vi chiamate? Me lo ricordo, Fandorin, buffo cognome. Io mi chiamo Achtyrzev. Nikolaj Achtyrzev.»
Erast Petrovič accennò un inchino, e intanto cercava di risolvere un complesso problema morale: se non fosse eccessivamente scorretto approfittare dello stato di debolezza di Achtyrzev per farsi dare da lui le informazioni necessarie, visto che il «gobbo», a quanto pareva, era in vena di confidenze.
Decise che non c’era nulla di male, si poteva. Non aveva certo la forza di opporsi a tanto fervore investigativo.
«Qui vicino c’è il Crimea», considerò Achtyrzev. «E non c’è bisogno di prendere una vettura, possiamo arrivarci a piedi. Certo, è un postaccio, in compenso il vino è buono. Venite con me? Offro io.»
Fandorin non si mise a fare lo smorfioso, e lentamente (lo studente comunque non si teneva bene in piedi) si trascinarono per il vicolo buio in direzione delle luci di via Sretenka che brillavano lontane.
«Voi, Fandorin, probabilmente mi considerate un vigliacco, vero?» gli chiese Achtyrzev con la lingua impastata. «Perché non ho sfidato a duello il conte, ho sopportato l’offesa e per di più mi sono finto ubriaco? Io non sono un vigliacco, potrei anche raccontarvi qualcosa da convincervene… Dopotutto lui faceva apposta a provocarmi. Magari è stata lei a incitarlo per sbarazzarsi di me e non pagare il suo debito… Oh, quella è una donna, voi non la conoscete!… E per Zurov ammazzare un uomo è lo stesso che schiacciare una mosca. Ogni mattina si esercita un’ora con la pistola. Dicono riesca a prendere una moneta da cinque copechi a venti passi di distanza. Sarebbe forse stato un duello? Lui non avrebbe rischiato nulla. Sarebbe stato un assassinio, però con un bel nome. E, soprattutto, Zurov non ne avrebbe pagato le conseguenze, se la sarebbe cavata. Se l’è già cavata più di una volta. Sì, passerà qualche mese fuori dalla Russia, farà una vacanza. E poi adesso io voglio vivere, me ne sono guadagnato il diritto.»
Svoltarono da via Sretenka in un altro vicolo, assai misero ma se non altro con i fanali a gas e non più a cherosene, e davanti a loro si disegnò un edificio a tre piani con le finestre bene illuminate. Doveva essere quello il Crimea, pensò con un tuffo al cuore Erast Petrovič che aveva sentito tanto parlare di quel nido del libertinaggio, famoso in tutta Mosca.
Nel vasto porticato brillante di lampade nessuno si fece loro incontro. Achtyrzev con gesto da habitué spinse l’alta porta intarsiata, che gli cedette facilmente, e incontro a loro alitò un tepore di cucina e di alcolici, si levò un boato di voci e uno stridere di violini.
Consegnati al guardaroba i cilindri, i giovani finirono nelle grinfie di un tipo baldanzoso in camicia rossa, il quale si rivolgeva ad Achtyrzev chiamandolo «eccellenza» e promise il tavolino migliore, tenuto apposta da parte.
Il tavolino era vicino al muro e, grazie a Dio, lontano dalla scena su cui un coro zigano vociava e scuoteva i tamburelli.
Erast Petrovič, che per la prima volta in vita sua si trovava in un vero covo di perdizione, cominciò a girare la testa da ogni parte. Il pubblico era dei più variopinti, ma gente sobria, a quanto pareva, non se ne vedeva proprio. Il tono lo davano dei giovani bottegai e operatori di borsa con la scriminatura impomatata — si sa chi ha soldi al giorno d’oggi, ma ci capitavano anche signori dall’aspetto incontrovertibilmente nobiliare, qua e là brillava perfino un monogramma in oro sulla spallina di un militare altolocato. Ma più di tutto suscitavano l’interesse del giovane le ragazze che andavano a sedersi ai tavoli al primo gesto d’invito. Avevano scollature tali da far arrossire Erast Petrovič, mentre le gonne con gli spacchi facevano intravedere impudicamente ginocchia rotonde fasciate da calze traforate.
«Che fate, guardate le ragazze?» sogghignò Achtyrzev, ordinando al cameriere del vino e due piatti del giorno. «Io invece, dopo Amalia, nemmeno le considero esseri di sesso femminile. Quanti anni avete, Fandorin?»
«Ventuno», rispose Erast Petrovič aggiungendosi un annetto.
«Io ne ho ventitré, e ne ho già viste di cose. Non statevene lì a bocca aperta davanti a quelle in vendita, non meritano né denaro né tempo. E subito dopo viene la nausea. Se proprio bisogna amare, che sia un’imperatrice! Sebbene, cosa sto a dirvi… Dopotutto non ci sarete finito per caso da Amalia? Vi ha stregato? Questo le piace molto, mettere insieme una collezione, e che i pezzi esposti si rinnovino di continuo. Come cantano all’operetta, elle ne pense qu’a excìter les hommes… Ma tutto ha un prezzo, e io il mio prezzo l’ho pagato. Volete che vi racconti una storia? Non so perché ma mi piacete, sapete tacere così bene. E a voi risulterà utile sapere che donna è quella. Magari tornate in voi prima che vi risucchi del tutto come ha fatto con me. O vi ha già risucchiato, eh, Fandorin? Cosa stavate lì a sussurrarle?»
Erast Petrovič abbassò lo sguardo.
«Allora ascoltatemi», prese a raccontare Achtyrzev. «Visto che poco fa mi avete preso per un vigliacco perché ho ceduto a Ippolit, invece di sfidarlo a duello. Ma io un duello l’ho già fatto, di quelli che il vostro Ippolit nemmeno se lo sogna. Avete sentito quando ha detto di non parlare di Kokorin? Ci mancherebbe pure quello. Il suo sangue ce l’ha lei sulla coscienza, lei. E anch’io, naturalmente. Solo che io il mio peccato l’ho riscattato con un terrore mortale. Kokorin era un mio compagno di corso, ci veniva anche lui da Amalia. Una volta eravamo stati amici, ma poi eravamo diventati nemici per via di lei. Kokorin era più disinvolto di me, e aveva una bella faccia, ma, detto entre nous, un mercante è sempre un mercante, un plebeo, non importa se ha studiato all’università. Amalia si è divertita abbastanza con noi, coccolava ora uno, ora l’altro. Un giorno mi chiama ‘Nicolas’, mi dà del tu, divento io il favorito, poi basta un niente per cadere in disgrazia: mi tiene in quarantena per una settimana, mi dà di nuovo del voi, sono di nuovo Nikolaj Stepanyč. Ecco com’è la sua politica, chi abbocca al suo amo, non si libera più.»
«E questo Ippolit chi è per lei?» chiese cautamente Fandorin.
«Il conte Zurov? Di preciso non lo so, ma fra di loro c’è qualcosa di particolare… Non si capisce se è lui ad avere potere su di lei, o lei su di lui… Ma geloso lui non lo è, e poi non è la gelosia di Zurov che conta. Amalia è di quelle che non permette a nessuno di fare il geloso. In una parola: è un’imperatrice!»
Читать дальше