Laura Mancinelli - I dodici abati di Challant

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I dodici abati di Challant: краткое содержание, описание и аннотация

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Sospesi tra storia e invenzione in un Medioevo che sembra vero, sono qui raccolti in un unico volume tre romanzi di Laura Mancinelli, in cui l'autrice approda a una visione fantastica e affettuosamente ironica della tradizione e della società medioevale: "I dodici abati di Challant", dove, in una cornice di ironia mondana e gaudente, dodici monaci ricevono l'incarico di sorvegliare un feudatario che eredita un castello con la clausola di mantener fede a un maligno obbligo di castità; "Il miracolo di Santa Odilia", immagine della vita che si afferma in chiave religiosa, ma non trascendente, attraverso la storia di due Odilie: la prima devota e pia, la seconda giovane e bella; e infine, conclusione ideale di questa metafora ideale, "Gli occhi dell'imperatore", dove una contessa piemontese, un cavaliere-musico-poeta e l'imperatore Federico II, ormai prossimo alla morte, partecipano a un affascinante percorso di avventure e sentimenti, che è anche un intreccio di entusiasmo, rassegnazione e senso del destino.

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E tosto si vide che questa non era real difficultate e che talvolta il prossimo nostro male giudichiamo. Non era gran tempo trascorso da quando il banditore del castello avea la richiesta annunziata nella piazza della villa, che ogniun poté con suoi occhi vedere quanto grande sia la carità che alberga in cuore femminile: molte furon le donne, giovani e meno, leggiadre e meno, che vennero al castello per alleviare i dolori dell'abate, et ei di buon animo all'opra si mise. E ancor che in prima grande aflizione il molesto dolor li recasse, il beneficio del rimedio tosto risentì, sì che li lombi riscaldaronsi nell'impresa et ei gagliardo compì sua opra, vuoi per la gran fede che avea nella scuola di Salerno, vuoi per acquistarsi il paradiso come dicea il comandamento.

Ma, ahimè, accade troppo spesso che il malato sì ben s'acconcia alla sua medicina che di essa assume più della misura, talché accade alcuna volta che cosa per il bene disposta in gran danno si rivolta, sì come già fu del liquore di colchici ch'avea ucciso il buon abate Umidio. E ancor qui simil cosa si vide. Resta alquanto oscuro se Malbrumo troppa medicina abbia preso, o se con troppo ardore tal pozione bevesse o se ancora l'amore del paradiso al di sopra di sue forze lo spingesse; accadde per tal guisa che quando venne sera e le ombre si sedettero sul trono del cielo, allora che messer Goffredo si recò dall'abate per veder se la scienza di Salerno aveva il suo male debellato, poi che a lungo bussò alla sua porta e non ne ebbe risposta alcuna, entrato nella stanza, trovò l'abate serenamente spirato nel suo letticciolo.

Autodafé

- Questo è il castello del demonio! - gridava l'abate Ildebrando agitando con la destra una torcia fumante. - È il castello del peccato! qui ognuno segue il suo talento senza freno alcuno. Qui non è limite cristiano a suoni, danze e fornicazioni! - E girava gli occhi sanguigni sui signori seduti a banchetto, il banchetto funebre per il defunto abate Malbrumo. - Non v'è al mondo luogo più impuro, dove meno si facciano digiuni ed astinenze; preghiere e penitenze son qui parole vane, poiché in ogni ora ognuno cerca solo il suo diletto. Tanto è piena di malizia questa dimora che Iddio volle toglierle in un anno undici abati affinché non fossero contagiati da tanta lebbra.

Poi puntando il lungo indice ossuto sulla marchesa, continuò: - E voi, marchesa, della mala pianta siete la radice, ché della vostra nequizia contagiate ogni persona che vive nella vostra casa. Né di questo è meraviglia alcuna, che siete donna, e quindi strumento del demonio. Né è meraviglia che nido di peccati sia questo castello, poiché voi lo governate. - E girando gli occhi sui presenti: - Tutti, tutti, - disse, - siete in peccato mortale poi che avete appreso ad amare il piacere e fuggire la sofferenza, e tutti gemerete nelle fiamme dell'inferno! Ma prima - e qui il suo sguardo ebbe lampi di follia - prima io distruggerò la Babilonia infernale, e purgherò il mondo di questa Sodoma e Gomorra, sì che anche voi perirete nel fuoco e tra le fiamme sconterete i vostri peccati: pregate Iddio misericordioso che si tenga soddisfatto del fuoco terreno che distruggerà i vostri corpi sì che voglia risparmiare le vostre anime.

Siatemi grati, che vi do l'ultima speranza di sfuggire alle fiamme dell'inferno - e agitando la torcia disseminava scintille resinose.

- Monsignore è forse piromane? - chiese con interesse professionale messer Goffredo.

Rispose Venafro:

- No, signore. Non credo. Penso che sia seguace di quell'abate di Chiaravalle che vuol scaldare l'umanità al fuoco dei roghi. Temo, signori, che possa succedere una disgrazia, - e così dicendo accennò al paggio Irzio che gli voleva parlare. Quando gli ebbe dette poche parole all'orecchio, il donzello uscì e tornò di lì a poco con due robusti garzoni che presero l'abate ciascuno per un braccio e lo trascinarono via urlante e scalpitante.

La marchesa rimase a guardare con occhi assorti la porta da cui era uscito l'abate.

- Venafro, - disse poi posando gli occhi sul suo viso, - siamo dunque così malvagi?

- Noi non siamo malvagi, madonna. Nulla è più saggio nella vita che cercarvi la gioia che vi si può trovare. La penitenza fa l'uomo triste, e l'uomo triste ama che anche gli altri sian tristi. È come una malattia contagiosa, non credete, messer Goffredo?

- Certo, monsignore. E molti mali del corpo vengono da questa tristizia. E in particolare i mali della mente, come l'angoscia del peccato e il sentirsi l'animo pieno di colpe.

- Signori, - disse Venafro alzandosi in piedi, - io credo che l'unico peccato al mondo è il male che si cagiona a se stessi e agli altri. I piaceri della tavola diventano peccato quando si porta via il cibo agli altri, i piaceri del corpo quando si costringe altri a subirli contro la sua volontà. Ma è più grande peccato avvelenarli col mostro dell'inferno, è più gran peccato indur tristezza, angoscia e disperazione nell'animo altrui che molcir le membra di carezze. È più gran peccato minacciar trombe del giudizio che suonar viole, flauti e mandolini.

- E questo nostro castello non è dunque nido di scorpioni? - chiese la marchesa.

- Madonna, - rispose questa volta il duca Franchino, - sarebbe nido di scorpioni se rubassimo i raccolti ai contadini, se più del giusto servizio chiedessimo loro, se facessimo violenza alle persone. Noi questo non l'abbiam mai fatto. E io stesso nel mio ducato di Mantova non l'ho mai fatto.

- A noi resta la scelta tra l'esser giusti o ingiusti - continuò Venafro, - e anche il più umile servo può divenire tiranno, poi che troverà sempre una creatura più debole di lui, che possa opprimere per sentirsi forte. Ma se non cerca e non desidera questo, neppure un re è un tiranno.

- E se non volendo facciamo male a qualcuno, proseguì la marchesa, come può accadere nella vita degli uomini e delle donne, che facciano soffrire qualcuno senza pur avvedersene, non siamo per questo malvagi, perché l'intenzione non avevamo di nuocere ad alcuno. Perciò non si faccia penitenza, né si vestan grige vesti, che già abbastanza grigio è il cielo autunnale, e anche troppo triste la tenebra della lunga notte. Il male sono fame e freddo, morte e malattie; il peccato è amare le sventure e seminare tristezza. Suonate, signori, i vostri strumenti e scacciate le ombre che si addensano sulla notte d'autunno.

Domani farà giorno e finché ci sarà vita su questa terra il giorno porterà conforto agli animi inquieti e rattristati.

Fu portato vino generoso, furono messi nuovi ceppi nel grande camino, da cui la rossa fiamma si levò tingendo di lieta luce tutta la sala.

Venafro trasse il suo flauto e il duca la viola d'amore.

- Come siamo pochi, signori! - disse la marchesa, e pensava al trovatore e al filosofo, al mercante di Venezia, all'inventore da Morazzone, alla pretessa e agli altri amici che erano stati in quel castello, a Mistral che forse sarebbe tornato. - Come siamo rimasti in pochi, signori!

Venafro e il duca suonarono una ballatetta ch'era chiamata la "Ballata dell'addio". La marchesa guardava pensosa il fuoco nel camino, quando a un tratto parve che al flauto rispondesse un altro flauto, un piccolo flauto dolce suonato da un bambino. Cicco era uscito dal suo letto e stava seduto per terra nella sala e suonava insieme al duca e a Venafro. Ai suoi piedi stava appallottolato Mirò.

- Sarà meglio vegliare, - disse la marchesa quando tutti si furono ritirati e Venafro già si accingeva a portare a letto Cicco che se ne stava comodamente addormentato sulle sue braccia.

- Veglierò io, - rispose Venafro, - voi riposate, Madonna.

- Ho paura, Venafro, di quel frate fanatico; l'ho guardato negli occhi... m'è parso un malvagio.

- O malvagio o demente. Veglierò davanti alla sua porta, tutta la notte.

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