Allora diventava di volta in volta l'umile salmista, Davide re, o il dio degli eserciti dalla voce tonante o persino l'empio filisteo maledetto. Naturalmente esagerava nei toni, e l'unica volta che la marchesa veramente si accorse di lui fu nella chiesa del castello, durante il canto dei salmi - egli era allora la voce del dio degli eserciti - ed ella si volse infastidita verso il coro alzando le bianche mani a coprirsi le orecchie. Santoro, quella volta, si tacque.
Ma sognava molto. Sognava di andare a cavallo nella foresta scossa da lampi e tuoni e vedere madonna Bianca rapita da un irsuto brigante. La donna tendeva a lui le mani e gridava aiuto e lui con la spada faceva a pezzi la clava del brigante e liberava la fanciulla piangente.
Sognava di essere Carlo Magno che aveva sconfitto i sassoni e ne liberava gli schiavi, e in ceppi di ferro, sfinita e seminuda c'era la marchesa e lui la riconosceva solo dopo averle scostato i lunghi capelli dal viso... Sognava che ella era mendicante scalza nel fango gelato di novembre e lui la tirava sul suo cavallo e l'avvolgeva nel suo mantello... Ma la marchesa non era in ceppi, non era infreddolita né minacciata da bruti, e se aveva fame poteva mangiare quanto voleva.
E poi la sua fantasia lo portava a raffigurarsi sempre in santi a cavallo, o santi guerrieri, e lui proprio un eroe non si sentiva... E vero che l'eroismo viene con la santità, l'aveva scritto in una predica san Bernardo...
Se non aveva mai osato parlare alla marchesa, osò tuttavia parlare all'astrologo.
- Messere, mi volete indicare qual è la stella della santità? L'astrologo lo guardò prima stupito, poi con occhi più gialli che mai.
- Certamente, monsignore. Quando sarà notte fatta, poi che la luna già inclini al tramonto, venite con me sul colle roccioso, questa notte e lo guardava con occhi dorati in cui guizzava, a tratti, uno strano sorriso. Ma l'abate non se n'avvide, trascorse l'attesa pregando, fantasticando, guardando l'occidente che lentissimamente imbruniva, si tingeva di rosso, il cielo si oscurava, s'empiva del chiarore lunare, e poi ritornava scuro, la luna tramontava e solo le stelle brillavano nel buio.
Era notte fonda e un grandissimo silenzio occupava tutta la terra.
Santoro, avvolto nel suo lungo mantello d'abate, tremante d'ansia, giungeva sul colle roccioso. Distinse subito la figura dell'astrologo sul suo cavallino grigio: guardava le stelle con un lungo tubo scuro.
- A che serve quel tubo, messere? - chiese l'abate. L'astrologo si riscosse e lo guardò stupito: - Che fate qui? A quest'ora tutti dormono, tranne gli astrologi... e gli amanti, - aggiunse ridendo. Intanto s'era ricordato della strana domanda dell'abate e una piccola allegria perversa lo animò tutto. Volete vedere la stella della santità, vero? - E chinandosi dal cavallino verso l'abate gli porgeva il tubo scuro e gli indicava un astro qualunque nel cielo. - È quella; guardatela nel tubo; la vedrete intatta dallo scintillio di altre stelle. La vedete? Vedete come palpita? Sa che voi la cercate. Andate verso di lei, seguitela, vi insegnerà la strada per divenire santo, vi darà il coraggio per fare tutto ciò che la vostra vocazione vi chiede, per affrontare fatiche, pericoli e anche il martirio. E non dubitate... - l'astrologo doveva alzare la voce perché Santoro s'era subito avviato col tubo incollato all'occhio ed era già alquanto lontano, - non dubitate che non fallirete la vostra impresa.
L'abate non rispose; forse non udì neppure le ultime parole dell'astrologo; andava, né vedeva dove andava, tutto preso dal richiamo della sua stella. L'astrologo lo vide allontanarsi barcollando, sempre col tubo incollato all'occhio, correndo, inciampando nei sassi; poi non se ne seppe più nulla. Al castello non fece mai ritorno; forse ha raggiunto la santità, o forse giace in una forra, rotto nella persona ma intatto nella fede.
Ottobre
- Madonna, dammi colori e pennelli, che voglio ritrarre il tuo corpo ridente, e dammi molta porpora e oro, - diceva il filosofo guardando la marchesa che giaceva sul letto.
- Oro, filosofo? Dove metterai l'oro che i miei capelli sono neri?
- Io so dov'è l'oro nel tuo corpo, marchesa. Pura vena d'oro nella miniera profonda nella terra, oro liquido e lucente, fuso nel crogiuolo più caldo del mondo, là dove nasce la vita e muore la morte, dov'è il centro dell'universo e il baricentro della gioia. Dammi molto oro, marchesa, che sarà sempre poco a dipingere il prezzo infinito della gran bontà del tuo corpo.
Era tornato una tarda sera di ottobre e aveva bussato due colpi alla porta della marchesa. Lei l'aveva riconosciuto. Il mattino dopo partì.
E cominciò la vendemmia nella valle. D'in cima al poggio la marchesa guardava le file di muli che uscivano dal castello con le ceste vuote e tornavano con le ceste piene di nerissima uva. La nebbia cominciava ad alzarsi e scopriva un brulicare di vita sui terrazzi sassosi della montagna. Qualcuno cantava, tutti parlavano, ordinavano, ridevano e imprecavano. Le viti si sfrangiavano sotto le mani e i coltelli, come antichi merletti dorati strappati dal tempo e dal sole. Il sole guadagnava spazio nella nebbia, un balzo di roccia dopo l'altro, penetrava fino al cuore della valle mettendo in fuga le ombre, svegliando fronde e fiori col suo calore irruento, illuminando ogni angolo, ogni piega, ogni pertugio della terra generosa. La marchesa aveva gli occhi, il cuore, il corpo pieni di sole.
Quando la vendemmia fu finita, a tutti, uomini e donne, fu servito vino generoso, pane, cacio e salsiccia nella gran corte del castello, e focacce con uva e miele, e dolci di noci e ancora vino, sì che tutti furono lieti e molto si cantò e si ballò, e servi e signori godettero insieme della gran festa d'autunno. Oltre il tramonto durò la festa, quando spenta la luce del sole, la luna soltanto nel cielo e molte fiaccole resinose illuminavano la grande corte del castello piena di danze. Il vino, il cibo e la foga della danza vincevano il freddo che pure pungente si insinuava tra le vesti e combatteva con il giovanile ardore. Poi la marchesa fece servire a tutti vino caldo aromatizzato e volle che ognuno si ritirasse nella sua casa o nella sua stanza del castello.
- Non avrei gran maraviglia, - disse a messer Goffredo di Salerno, se domani alcuno avesse qualche malanno da freddo.
- Non datevi pensiero, marchesa, - egli rispose. - Vengon da Salerno comandamenti da seguire per qualsivoglia ammalamento.
E con questi discorsi, ognuno, stanco, si abbandonò nel sonno. La marchesa aveva ben preveduto, ché infatti il dì seguente giacevasi in letto l'abate Malbrumo, oppresso da assai molesto dolor di lombi.
Ancor che nessun pericolo di morte minacciasse l'abate, era tuttavia tale malanno sì molesto che di gemiti sonava tutto il castello, né v'era loco del letto o posizione delle membra che alleviar potesse all'abate il suo soffrire. Fu tosto avvisato ser Goffredo, il quale avanti ogni altra cosa comandò che all'abate fosser posti sui lombi panni di lana su cui seduta si fosse dimorata una donzella sì da scaldarli con li lombi suoi: poi che è principio costante d'ogni cura che una parte malata abbiasi a curare con simile parte di persona sana. Poi il sapiente Goffredo andò a cercare nelli libri suoi il più acconcio rimedio a tal malanno. Molte pagine volse con la bella mano e infine.
- Ecco, - disse, - è questo il rimedio più acconcio al tipo di malanno e allo stato del malato. - E tale rimedio messer Goffredo lesse: "Comandamento primo da farse per chi soffre per lo mal di lombi.
Poi che ogniun sape esser lo mal di lombi da tristizia di mente causato, dicasi a chi di tal dolore è oppresso che si adopri in amar donne leggiadre, e sì ben sua opra compia che, ancor che li lombi li dolgano tuttavia, si habia per merzede il paradiso, poi che il Giusto Remuneratore d'ogni bontade cieco non è a tanta valentìa." I signori del castello si guardarono in volto un poco dubitosi, poi che alquanto strano pareva tal rimedio. Ma tanta era l'autorità della scuola di Salerno in cose di medicina che decisero alfine di chiedere al malato se tal comandamento accettava per cura dei suoi mali. Fu l'abate Malbrumo ancor esso un po' sorpreso in udire un tal comandamento, ancor che troppo ingrato il rimedio non paressi, et alquanto silenzioso si ristette poi che non sapea se il malanno vigor bastante li lasciasse a compiere l'impresa. Ma infine convinto fue di accettare tal comandamento, vuoi per la gran fama dei signori di Salerno, vuoi per la remunerazione promessa a tanta impresa. Ma voleva ancora tal rimedio che donzelle si trovassero disposte al sacrifizio, vuoi per amor dell'abate, vuoi per carità di cuore.
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