«Sembra triste» osservò il Luna.
Quando tornammo nel mio appartamento, Ziggy Garvey e Benny Colucci erano in cucina. Avevano in mano una tazza di caffè e un pezzo di toast.
«Spero che non ti dispiaccia» disse Ziggy. «Eravamo curiosi di sapere come va il nuovo tostapane.»
Benny agitò la mano in cui teneva la fetta di pane. «Questo toast è ottimo. Vedi come è dorato uniformemente. Non è bruciacchiato ai bordi. Ed è bello croccante.»
«Dovresti metterci della marmellata» disse Ziggy. «Della marmellata di fragole ci starebbe proprio bene.»
«Siete entrati di nuovo in casa mia! È una cosa che non sopporto.»
«Non eri in casa» si giustificò Ziggy. «E non volevamo far vedere ai tuoi vicini che hai degli uomini che ti aspettano fuori dalla porta.»
«Già, non volevamo infangare il tuo nome» aggiunse Benny. «Secondo noi tu non sei quel genere di ragazza. Anche se da anni girano un sacco di voci su te e Morelli. Dovresti stare attenta con lui. Ha una pessima reputazione.»
«Ehi, guarda» disse Ziggy. «C’è il nostro piccolo finocchio. Dove hai lasciato la tua uniforme, ragazzo?»
«Già, e perché hai quel cerotto? Sei caduto dai tacchi alti?» chiese Benny.
Ziggy e Benny si diedero una gomitata e risero come se avessero detto qualcosa di molto spiritoso.
Mi saltò in mente un’idea. «Non è che per caso voi due sapete qualcosa sul perché il mio amico ha un cerotto in testa?»
«Io no» rispose Benny. «Ziggy, tu ne sai qualcosa?»
«Non ne so niente» disse Ziggy.
Mi appoggiai all’indietro contro il piano della cucina e incrociai le braccia. «Allora che ci fate qui?»
«Abbiamo pensato che dovevamo fare un salto» disse Ziggy. «È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti, e volevamo sapere se per caso è venuto fuori qualcosa.»
«Non sono passate neanche ventiquattro ore» gli feci notare.
«Già, proprio come abbiamo detto. È passato un po’ di tempo.»
«Non è venuto fuori niente.»
«Accidenti che peccato» disse Benny. «Ci eri stata consigliata tanto caldamente. Speravamo proprio che potessi aiutarci.»
Ziggy finì il caffè, sciacquò la tazza nel lavello e la sistemò nello scolapiatti. «È ora di andare.»
«Maiale» disse il Luna.
Ziggy e Benny si fermarono sulla soglia di casa.
«È una brutta parola» disse Ziggy. «Farò finta di non aver sentito solo perché sei un amico della signorina Plum.» Guardò Benny perché lo appoggiasse.
«Esatto» disse Benny. «Facciamo finta di niente, ma dovresti imparare un po’ di educazione. Non sta bene parlare così a dei signori anziani.»
«Mi avete dato del finocchio!» urlò il Luna.
Ziggy e Benny si guardarono perplessi.
«E allora?» fece Ziggy.
«La prossima volta rimanete pure tranquillamente fuori dalla porta» dissi. Una volta usciti, chiusi la porta a chiave. «Voglio che tu ti metta a pensare» dissi al Luna. «Hai idea di perché qualcuno ti ha sparato? Sei sicuro di aver visto la faccia di una donna alla finestra?»
«Non lo so, piccola. Mi riesce difficile pensare. Ho la mente, come dire, occupata.»
«Hai ricevuto strane telefonate?»
«Ce n’è stata una, ma non era poi così strana. Ha chiamato una donna quando ero da Dougie e ha detto che secondo lei avevo qualcosa che non era mio. E io… sì, insomma, tutto qui.»
«Ti ha detto qualcos’altro?»
«No. Le ho chiesto se voleva un tostapane o un costume da supereroe e lei ha riattaccato.»
«È tutta là la merce che ti è rimasta? Che ne è delle sigarette?»
«Me ne sono sbarazzato. Conosco un fumatore incallito…»
Era come se il Luna fosse rimasto impigliato in una curvatura del tempo. Me lo ricordavo ai tempi del liceo e non era cambiato di una virgola. Capelli castani, lunghi e sottili, con la riga in mezzo e legati a coda di cavallo. Carnagione chiara, costituzione snella, altezza nella media. Indossava una camicia hawaiana e un paio di jeans che probabilmente erano finiti a casa di Dougie con il favore del buio. Aveva passato gli anni di scuola superiore a galleggiare in un costante annebbiamento da fumo che gli dava un rilassato benessere, lo faceva parlare e ridacchiare durante la pausa pranzo, sonnecchiare alle lezioni di inglese. E ora eccolo qui… che continuava a vivere sospeso su una nuvola. Niente lavoro. Nessuna responsabilità. A pensarci bene, non era per niente male.
Di sabato, Connie lavorava generalmente la mattina. Chiamai in ufficio e aspettai che terminasse un’altra conversazione.
«Stavo parlando con la zia Flo» disse. «Ti ricordi quando ti ho detto che c’erano stati dei problemi a Richmond quando Eddie DeChooch era là? Secondo lei ha a che vedere con il fatto che Louie D ha tirato le cuoia.»
«Louie D. È un uomo d’affari, giusto?»
«Sì, e di quelli importanti. O almeno lo era. È morto di infarto mentre DeChooch stava facendo il suo lavoretto.»
«Forse è stato un proiettile a provocare l’infarto.»
«Non credo. Se Louie D fosse stato coinvolto in qualcosa ne avremmo sentito parlare. È il genere di notizie che viaggia veloce. Soprattutto visto che la sorella abita qui.»
«Chi è sua sorella? La conosco?»
«Estelle Colucci. La moglie di Benny Colucci.»
Porca miseria. «Quant’è piccolo il mondo.»
Riagganciai e mi chiamò mia madre.
«Dobbiamo andare a scegliere un abito per il matrimonio» disse.
«Non mi vesto in lungo.»
«Potresti almeno provare.»
«Okay, lo farò.» Neanche per sogno.
«Quando?»
«Non lo so. Al momento sono impegnata. Sto lavorando.»
«È sabato» protestò mia madre. «Com’è possibile che lavori anche di sabato? Devi rilassarti di più. Io e tua nonna siamo subito da te.»
«No!» Troppo tardi. Era già partita.
«Dobbiamo andarcene» dissi al Luna. «È un’emergenza. Dobbiamo andare via.»
«Che genere di emergenza? Non è che vogliono spararmi un’altra volta?»
Tolsi i piatti sporchi dal piano della cucina e li buttai nella lavastoviglie. Poi presi il piumone e il cuscino del Luna e li portai di corsa in camera. Mia nonna aveva abitato con me per un po’ ed ero quasi sicura che avesse ancora la chiave del mio appartamento. Guai se mia madre fosse entrata in casa mia e l’avesse trovata in disordine. Il letto era sfatto ma non volevo perdere tempo con quello. Raccolsi i vestiti e gli asciugamani sparsi qua e là e buttai tutto nel cesto della biancheria. Attraversai di corsa il soggiorno, poi tornai in cucina, presi la borsa e la giacca e gridai al Luna di darsi una mossa.
Incontrammo mia madre e mia nonna nell’atrio.
Maledizione!
«Non c’era bisogno che ci aspettassi di sotto» disse mia madre. «Saremmo salite.»
«Non vi stavo aspettando. Stavo uscendo. Mi dispiace, ma stamattina devo lavorare.»
«Che stai facendo?» domandò mia nonna. «Sei sulle tracce di qualche pazzo omicida?»
«Sto cercando Eddie DeChooch.»
«Ci avevo quasi azzeccato» disse la nonna.
«Eddie DeChooch puoi trovarlo un’altra volta» affermò mia madre. «Ti ho fissato un appuntamento alla boutique di abiti da sposa “Da Tina”.»
«Ti conviene cogliere l’occasione al volo» suggerì la nonna. «È stato possibile solo perché qualcuno ha disdetto all’ultimo minuto. E poi ci serviva una scusa per uscire di casa perché non se ne poteva più di cavalli al galoppo e nitriti.»
«Non voglio un abito da sposa» dissi. «Voglio un matrimonio in piccolo.» O nessun matrimonio.
«Sì, ma non costa nulla dare un’occhiata» insisté mia madre.
«La boutique “Da Tina” è uno sballo» commentò il Luna.
Mia madre si rivolse al Luna. «Ma questo è Walter Dunphy? Santo cielo, non ti vedo da una vita.»
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