Giovanni Pascoli - Primi poemetti (1904)
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L’ANGELUS
Sì: sonava lontana una campana,
ombra di romba; sì che un mal vestito
che beveva, si alzò dalla fontana,
e più non bevve, e scongiurò, di rito,
l’impazïente spirito. Via via
si sentì la campana di San Vito,
si sentì la campana di Badia
e gli altri borghi, di qua di là, pronti
cantando si raggiunsero per via.
C’era di muti spiriti nei fonti
un palpitare al tremolìo sonoro
ch’empieva l’aria e percotea nei monti.
La donna andava con le figlie; e loro
squillò sul capo, subito e soave,
dalla lor Pieve un gran tumulto d’oro.
E tu nascesti Dio da un piccolo Ave…
– Tu che nascesti Dio dal piccolo Ave,
dalla sorrisa paroletta alata
(disse la voce tremolando grave):
tu che nell’aia bianca e soleggiata
eri e non eri, seme che vi avesse
sperso il villano dalla corba alzata;
ma poi l’uomo ti vide e ti soppresse,
t’uccise l’uomo, o piccoletto grano;
tu facesti la spiga e poi la mèsse
e poi la vita: fa’ che non in vano
nei duri solchi quella gente in riga
semini il pane suo quotidïano.
O Dio, neve raffrena, pioggia irriga,
sole riscalda quei futuri steli;
fa’ che granisca la futura spiga,
o tu cui l’uomo seminò nei cieli! —
Così diceva tremolando grave
la voce d’oro su l’aerea Pieve;
e gli aratori l’Angelus e l’Ave
dissero; e in mezzo alla preghiera breve
la dolce madre a lui venìa; non sola:
l’erano accanto con andar più lieve
bionda la Rosa e bruna la Viola.
IL CACCIATORE
Po le seguiva, il fido cane. Or essi
siedono su la porca assai contenti.
La Pieve sorridea sotto i cipressi.
Po ringhiò, fece biancheggiare i denti:
passava un uomo, un cacciator; ristette.
«Giovine, giunto qui tra le mie genti!
ciò che avanza per sei, basta per sette»
disse il capoccio; e poi con lieta cera:
«Male per voi, che bene per noi mette!
Noi ci vedemmo, o giovine, alla fiera
di Castiglione, all’osteria di Betto.
Tuo padre, Andrea buon’anima, non c’era
l’uomo più bravo e tuttavia più schietto;
e dava tempo al tempo: ecco e tu ari
un campetto con siepe e con fossetto…
Bevi il mio vino e siedi tra’ miei cari!»
Ed ei s’assise, il giovane, tra loro,
e bevve il rosso vino. Era di faccia
alla fanciulla da’ capelli d’oro.
Ma la fanciulla dalle bianche braccia
non lo guardava. Ed il capoccio allora
gli domandò della sudata caccia.
E lui: «La prima non ho fatto ancora;
e sì, che non so dir con quanta pena
io tutta notte l’aspettai, l’aurora!
Che ieri io rincasava a notte piena,
pensando ad altro, a non so che: zirlare
io sentiva nell’alta ombra serena.
Erano i tordi, che già vanno al mare,
in alto, in alto, in alto. Io sentìa quelle
voci dell’ombra, nel silenzio, chiare;
e mi pareva un canticchiar di stelle.
Ma i tordi ancor non calano, e non sento
se non il fischio delle ballerine
seguire il solco dell’aratro lento;
e lo scoppiettìo trito senza fine
del pettirosso mattinier… Comincia
il passo. Sono piene le saggine
e le olivete. Sì; ma c’è la cincia!»
LA CINCIA
Sorrise, e disse che una volta c’era
un re piccino; e s’egli era piccino,
la sua reggia era grande e nera nera.
E un aio aveva questo reattino
nero, e l’aio era lì sempre a gracchiare,
e più, quando vedea torbo il mattino.
Il re veniva alle finestre a mare,
il re veniva alle finestre a monte:
«Avessi l’ale! Potessi volare!»
Nitrir sentiva alla sua voce pronte
le sue pulledre sparse alla pastura
nel grande prato ch’era dopo il ponte.
E quel nitrito, per le antiche mura,
per gl’infiniti muti colonnati,
destava i cani; e nella reggia oscura
rimbombavano in tanto alti latrati.
Or una fata l’ode. Ecco, sia fatto!
La gran reggia doventa una gran macchia
a colonne di pino e d’albogatto.
Nera tra i lecci vola una cornacchia.
È l’aio. Vola su brentoli e mortelle,
libero, il recacchino, il redimacchia.
E il curvo collo svincolano snelle
quelle pulledre scalpitando, ed ecco
ch’elle frullano azzurre cinciarelle.
Tengono l’osso ancora (od uno stecco?)
le cinciallegre, piccoli mastini,
sotto le zampe, e picchiano col becco.
Dunque, dagli albigatti esse e da’ pini
fanno la guardia, e il re ne’ suoi sambuchi,
tra molta signoria di fiorrancini,
regna, e si svaga con la caccia ai bruchi.
Così, vedete, il cacciator che gira,
vede calare un branco. Egli bel bello
s’appressa, egli già mira, egli già tira…
suona un nitrito tremulo d’uccello,
come starnuto, suona un bau bau chiaro,
come doppio squillar di campanello;
e il branco fugge prima dello sparo.
L’AVEMARIA
E poi sazi sorgevano: le zolle
sbriciò l’aratro, della terra nera,
dietro le vacche non ancor satolle.
Rosa, con gli altri e con Viola, a schiera,
ricopriva le porche col marrello.
Babbo voleva aver finito a sera.
Il dì passò tra sole e solicello:
il sole s’insaccò, né tornò fuori,
e Montebello si pose il cappello.
Stridule, qua e là, di più colori,
correan le foglie: non s’udia per gli ampi
filari che il vocìo degli aratori.
Palpitavano, a tratti, larghi lampi;
serrava il cardo le argentine spade;
ma tutta la sementa era nei campi.
Venne la sera ed abbuiò le strade.
E le vacche tornavano alle stalle;
e la gente, ciarlando per la via,
saliva co’ marrelli su le spalle.
Sonò, di qua di là, l’Avemaria:
si sentì la campana di San Vito,
si sentì la campana di Badia.
Era nel cielo un pallido tinnito:
Dondola dondola dondola! – A nanna
a nanna a nanna! – Il giorno era finito.
Ora il fuoco accendeva ogni capanna,
e i bimbi sazi ricevea la cuna,
col sussurrare della ninnananna.
E le campane, A nanna a nanna! l’una;
l’altra, Dondola dondola! tra il volo
de’ pipistrelli per la costa bruna.
A nanna, il bimbo! e dondoli, il paiuolo!
La madre era su l’uscio, poi che intese
un parlottare ed uno scalpicciare
tra la confusa romba delle chiese.
Ed un lampo alitò sul casolare,
e bianche bianche illuminò le strade;
e il capoccio ella udì dal limitare,
che diceva: «La festa il dì che cade!»
LA NOTTE
Nella notte scrosciò, venne dirotta
la pioggia, a striscie stridule infinite;
e il tuono rotolò da grotta a grotta.
Egli, il capoccio, avvolto nel suo mite
tacito sonno, non udiva. Udiva
nascere l’erba. Vide le pipite
verdi. Il grano sfronzò, quindi accestiva.
Nevicava, in suo sogno, a fiocco a fiocco:
candido il monte, candida la riva.
No: quel bianco era fiori d’albicocco
e di susino, e l’ape uscìa dal bugno
ronzando, e il grano già facea lo stocco:
Anzi graniva; ch’era già di giugno.
La cicala friniva su gli ornelli.
Egli l’udiva, con la falce in pugno.
L’acqua veniva stridula a ruscelli.
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