Emilio Salgari - Alla conquista di un impero

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Quando il sole tramontò fece ritorno, inoltrandosi nei boschi che sorgevano di fronte al tempio sotterraneo.

– Occupati dei cavalli, – disse all’indiano.

Sulla soglia della pagoda lo aspettavano, con viva impazienza, Sandokan e Tremal-Naik.

– Dunque? – chiesero ad una voce.

– Tutto va bene, – rispose Yanez ridendo. – Il rajah è mio amico. —

Poi estraendo una sigaretta proseguì:

– Vi spiacerebbe cacciare domani una tigre pericolosissima?

– A me lo domandi? – rispose Sandokan.

– Allora fa’ preparare le tue armi. Prima che il sole spunti ci troveremo al palazzo del rajah.

– Che cosa dici, Yanez? – chiese Tremal-Naik.

– Venite, – rispose Yanez. – Vi racconterò tutto. —

8. La tigre nera

Erano appena suonate le tre del mattino quando Yanez, seguìto da Sandokan, da Tremal-Naik e dai sei malesi giungeva dinanzi al palazzo reale, per intraprendere la caccia della terribile kala-bâgh ossia la tigre nera.

Fino dal giorno innanzi avevano noleggiati tre grandi tciopaya, ossia carri indiani tirati da una coppia di zebù, non essendo conveniente che un uomo bianco e per di più inglese, si recasse ad un appuntamento a piedi e senza una scorta numerosa.

Il maggiordomo della corte aveva preparato ogni cosa per la grande caccia.

Tre magnifici elefanti, che reggevano sui poderosi dorsi delle comode casse destinate ai cacciatori, prive di cupolette onde non intralciare il fuoco delle carabine e montati ognuno da un mahut, stavano fermi in mezzo alla piazza, circondati da una dozzina di behras, ossia di valletti che tenevano a guinzaglio una cinquantina di bruttissimi cani, di statura bassa, incapaci di tenere testa ad una belva così pericolosa, ma necessari per scovarla.

Dietro agli elefanti stavano due dozzine di scikari, ossia battitori, armati solamente di picche e quasi nudi, onde essere più lesti a fuggire dopo aver stanata la belva.

– Siamo pronti, sahib – disse il maggiordomo inchinandosi profondamente dinanzi a Yanez.

– Ed io essere contentissimo, – rispose il portoghese degnando lo appena d’uno sguardo.

– Buoni elefanti?

– Provati e abituati alle grosse cacce, sahib. Scegli quello che meglio ti conviene.

– Quello, – disse Tremal-Naik, indicando il più piccolo dei tre pachidermi e che aveva delle forme massicce, poderose e due denti superbi. – È un merghee di buona razza. —

I mahuts avevano gettate le scale di corda.

Yanez, Tremal-Naik e Sandokan presero posto nella cassa del merghee, Kammamuri coi malesi in quelle degli altri, insieme col maggiordomo che doveva dirigere la battuta.

– Avanti! – disse Yanez al mahut.

I tre pachidermi si misero subito in marcia mandando tre formidabili barriti, seguiti subito dagli scikari e dai behras che conducevano i cani, i quali latravano a piena gola.

In meno di mezz’ora la truppa fu fuori dalla città, poiché gli elefanti procedevano di buon passo obbligando la scorta a correre per non rimanere indietro e si diresse attraverso le boscaglie che si estendevano, quasi senza interruzione, fino nei dintorni di Kamarpur.

Yanez, dopo aver accesa la sua eterna sigaretta e d’aver bevuto un lungo sorso d’arak, si era seduto dinanzi a Tremal-Naik dicendogli:

– Ora tu, che sei indiano e che hai passati tanti anni nelle Sunderbunds, ci spiegherai che cos’è questa tigre nera.

Noi conosciamo quelle bornesi e là di nere non ne abbiamo mai vedute, è vero Sandokan? —

Il pirata che fumava placidamente il suo cibuc, gettando in aria, con lentezza misurata, delle nuvole di fumo, fece col capo un cenno affermativo.

– Quella che noi indiani chiamiamo kala-bâgh non è veramente nera, – rispose Tremal-Naik. – Ha il mantello simile a quello delle altre: siccome però sono le più feroci, i nostri contadini credono che incarni una delle sette anime della dea Kalì che come sai si chiama anche la Nera.

– Non si tratterebbe quindi che di uno di quei terribili solitari che gli inglesi chiamano man’s eater ossia mangiatori d’uomini.

– E che noi chiamiamo admikanevalla o admiwala kanâh.

– Una bestia sempre pericolosa.

– Terribile, Yanez – disse Tremal-Naik, – perché quelle tigri sono ordinariamente vecchie, per ciò rotte a tutte le astuzie e d’una voracità spaventosa.

Non potendo, in causa dell’età che le priva dello slancio giovanile, cacciare le antilopi od i buoi selvaggi, s’imboscano nei dintorni dei villaggi o si nascondono in prossimità delle fontane in attesa che le donne vadano a prendere acqua.

Sono d’una prudenza straordinaria, conoscono luoghi e persone, attaccando di preferenza gli esseri deboli e sfuggendo quelli che potrebbero tenere a loro testa.

– Vivono sole? – chiese Sandokan.

– Sempre sole, – rispose il bengalese.

– Sono allora difficili a catturarsi.

– Certo, perché sono prudentissime e cercano di evitare sempre i cacciatori.

– Siccome però quella tigre mi è necessaria, noi la prenderemo, – disse Yanez.

– Tu diventi incontentabile, amico – disse Sandokan, ridendo. – Prima era la pietra di Salagraman che ti era necessaria, oggi è una tigre e domani cosa vorrai?

– La testa del rajah, – rispose Yanez celiando.

– Oh per quella, ci penso io. Un buon colpo di scimitarra e te la porto ancora quasi viva.

– E i seikki che vegliano sul principe, non li conti tu.

– Ah sì! Mi hai parlato di quei guerrieri. Che gente sono, amico Tremal-Naik? Tu devi conoscerli un po’.

– Guerrieri valorosi.

– Incorruttibili?

– Eh! Secondo, – rispose il bengalese. – Non devi dimenticare, innanzi tutto che sono mercenari.

– Ah! – fece Sandokan.

– Ehi fratellino! – esclamò Yanez. – Che cosa t’interessano quei seikki?

– Tu hai le tue idee, io ho le mie, – rispose la Tigre della Malesia, continuando a fumare. – Sono anche quelli adoratori di Visnù e delle pietre di Salagraman, amico Tremal-Naik?

– Non adorano né Siva, né Brahma, né Visnù, né Budda, – rispose il bengalese. – Essi non credono che in Nanek, un religioso che sul principio del secolo decimosesto si fece un gran nome e che fondò una nuova religione.

– Vorresti diventare anche tu un seikko.

– Non glielo consiglierei, – disse Tremal-Naik, scherzando – perché sarebbe costretto, per essere ammesso a quella setta religiosa, a bere dell’acqua che ha servito a lavare i piedi e le unghie al sacerdote.

– Ah! Porci! – esclamò Yanez.

– Ed a mangiare servendosi di un dente di cinghiale, almeno per le prime volte.

– Perché? – chiese Sandokan.

– Per abituarsi a superare la ripugnanza che tutti i mussulmani hanno pei maiali, – rispose Tremal-Naik.

– Se lo terranno per loro il dente perché io non ho alcun desiderio di diventare un seikko, – disse la Tigre della Malesia. – Ho semplicemente un’idea verso quelle guardie. Bah! Ci penseremo su.

Siamo nei boschi bassi. Apriamo gli occhi. È in questi, è vero Tremal-Naik, che preferiscono abitare quei terribili solitari?

– Sì, le macchie dei banani e le terre umide delle grandi erbe, – rispose il bengalese.

– Teniamoci in guardia dunque. —

I tre elefanti, che procedevano sempre di buon passo, erano giunti in una immensa pianura che era interrotta qua e là da gruppi di mindi, arbusti non più alti di due o tre metri, dalla corteccia bianchissima e lucente ed i rami sottilissimi; da piccoli banani e da piccole macchie di butee frondose, dal tronco nodoso e robusto, coronato da un folto padiglione di foglie vellutate d’un verde azzurrognolo e sotto le quali pendevano degli enormi grappoli d’una splendida tinta cremisina.

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