Emilio Salgari - Capitan Tempesta
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– Vi farò curare rispose il Leone di Damasco.
– È quello che volevo mormorò fra sè l’avventuriero. – Ah! Capitan Tempesta, me la pagherai!
CAPITOLO IV. La ferocia di Mustafà
Dopo quella sfida cavalleresca che aveva accresciuta la fama già ben salda di Capitan Tempesta, riconosciuta ormai da tutti come la prima lama di Famagosta, l’assedio della disgraziata città era stato ripreso da parte delle orde turche, ma con molto meno slancio di quello che i cristiani s’aspettavano.
Pareva che, dopo la sconfitta del Leone di Damasco, un profondo scoraggiamento si fosse impadronito degli assedianti. Il fatto era che non spingevano più gli attacchi coll’accanimento primiero e che il bombardamento languiva.
Il comandante supremo delle orde barbare, Mustafà, non si vedeva più, come nel passato, ispezionare ogni mattina, dopo la preghiera, le colonne d’assalto, nè mostrarsi fra le compagnie degli artiglieri per incoraggiarli colla sua presenza.
Perfino i clamori selvaggi, che finivano sempre in un ululato spaventoso, che suonava «morte e sterminio ai nemici della Mezzaluna» non echeggiavano più nell’immenso campo. Che più? Perfino le trombe rimanevano mute ed i timballi della cavalleria non facevano udire i loro rulli.
Pareva che qualcuno avesse imposto a quello sterminato esercito il silenzio più assoluto.
Invano i capitani cristiani cercavano di spiegare quel mistero. Eppure non era quella l’epoca del Ramadan, della quaresima turca, durante la quale gli adoratori del Profeta sospendono perfino le operazioni di guerra, per pregare ed imporsi lunghi digiuni.
Come non era possibile che il Gran vizir avesse comandato il silenzio, per non turbare la guarigione del giovane Leone di Damasco, che infine non era altro che il figlio d’un pascià.
Capitan Tempesta e il suo tenente aspettavano la spiegazione di questo fatto assolutamente straordinario da El-Kadur, l’unico forse che avrebbe potuto dire qualche cosa, ma l’arabo, dopo il colloquio di quella notte, non era più rientrato in Famagosta.
L’improvvisa inattività dei nemici non incoraggiava affatto gli assediati, pel motivo che i viveri scemavano tutti i giorni e che la fame si faceva sentire sempre più aspra, specialmente per gli abitanti i quali vedevano diminuire ogni giorno le loro provviste d’olio e di cuoio, l’unico loro nutrimento già da parecchie settimane.
Erano trascorsi così parecchi giorni, collo scambio di qualche raro colpo di colubrina da una parte e dall’altra, quando una notte che Capitan Tempesta e Perpignano erano di guardia sul bastione di San Marco, videro un’ombra arrampicarsi, coll’agilità d’un quadrumane, su per la scarpa semidiroccata dalle mine dei turchi.
– Sei tu, El-Kadur? chiese Capitan Tempesta, afferrando, per precauzione, un archibugio che stava appoggiato al parapetto e che aveva la miccia accesa.
– Sì, padrone rispose l’arabo. – Non fate fuoco.
Con un ultimo slancio s’aggrappò ad un merlo e balzò agilmente sul parapetto, cadendo dinanzi a Capitan Tempesta.
– Eravate inquieto della mia prolungata assenza, è vero, padrone? – chiese l’arabo.
– Temevo che ti avessero scoperto e ucciso, – rispose Capitan Tempesta.
– Non hanno alcun dubbio su di me, rassicuratevi, padrone, – disse l’arabo – quantunque il giorno in cui voi vi misuraste col Leone di Damasco m’avessero veduto armare le pistole per ucciderlo, nel caso che vi avesse ferita.
– Migliora?
– Muley-el-Kadel deve avere la pelle ben dura, padrone. Egli è già convalescente e fra un paio di giorni rimonterà a cavallo. Ah! Ho anche un’altra notizia importante da darvi e che vi stupirà assai.
– Quale?
– Che anche il polacco migliora rapidamente.
– Laczinki! esclamarono ad una voce il capitano ed il suo tenente.
– Sì, lui.
– Non è stato ucciso da quel colpo di scimitarra?
– No, padrone. Sembra che gli orsi delle foreste polacche abbiano le ossa solide.
– E non l’hanno finito?
– No, perchè ha rinnegata la croce abbracciando la fede del Profeta rispose El-Kadur. – Quell’avventuriero ha l’animo molto largo, a quanto pare, e adora tanto la Croce quanto la Mezzaluna.
– È un miserabile! – esclamò Perpignano, con indignazione. – Combattere contro di noi, i suoi fratelli d’arme!
– E appena guarito sarà nominato capitano dell’esercito turco aggiunse l’arabo. – Uno dei pascià gli ha promesso quel grado.
– Quell’uomo deve odiarmi mortalmente, senza che io gli abbia fatto mai nulla di male, se invece non mi…
– Che cosa, capitano? chiese il veneziano, vedendolo interrompersi bruscamente.
Capitan Tempesta, invece di rispondere, chiese all’arabo:
– Ancora nulla?
– Nulla, padrone, – rispose El-Kadur, facendo un gesto desolato. – Non so il perchè si mantiene ostinatamente il segreto sul luogo ove fu condotto il signore Le Hussière.
– Eppure è impossibile che tutti lo ignorino, – disse Capitan Tempesta, con un sospiro. – Che l’abbiano ucciso? Dio mio! Quale sospetto!
– No, padrona, sono certo che egli vive. Io credo che sia stato relegato in qualche castello della costa, colla speranza d’indurlo ad abbracciare la religione islamita.
Egli è un gran valoroso ed i turchi accolgono volentieri fra le loro file i valenti, di cui hanno molto bisogno per guidare le loro orde innumerevoli sì, ma indisciplinate.
Capitan Tempesta si era lasciato cadere su un mucchio di macerie, come se fosse stato colto da una improvvisa debolezza.
Perpignano e l’arabo lo guardavano, entrambi profondamente commossi.
– Che io non possa sapere più mai che cosa è avvenuto di lui? mormorò la giovane duchessa con un sordo singhiozzo.
– Non disperate, padrone disse l’arabo. – Non rinuncerò alle mie gite notturne, finchè non mi avranno detto dove lo hanno condotto. Saper che egli è vivo è già molto.
– Tu non ne hai le prove, mio buon El-Kadur.
– È vero, ma se l’avessero ucciso, al campo lo si saprebbe di certo.
– E perchè sono tanto riluttanti a dire dove si trova prigioniero?
– Questo non lo so, padrone.
Capitan Tempesta si era alzato.
– Sì, forse ho torto a disperare, – disse.
In quel momento un baccano spaventevole ruppe improvvisamente il silenzio della notte.
Nel campo turco si udivano squillare le trombe e rullare i timballi della cavalleria ed un vociare furioso e scoppi d’armi da fuoco.
Migliaia e migliaia di torce si erano accese come per incanto e correvano per la vasta pianura, raggruppandosi verso il centro del campo, dove giganteggiava la tenda del gran vizir, il comandante supremo delle orde.
Capitan Tempesta, Perpignano ed El-Kadur si erano accostati rapidamente al parapetto del bastione, mentre le trombe delle sentinelle cristiane suonavano a tutto fiato l’allarme ed i guerrieri veneti, che riposavano nelle casematte, afferravano le armi accorrendo sulle mura.
– Si preparano all’assalto generale, – disse Capitan Tempesta.
– No, padrone disse l’arabo, con voce tranquilla. – È una rivolta che scoppia nel campo turco e che era già preparata fino da stamane.
– Contro chi?
– Contro il gran vizir, Mustafà.
– Per quale motivo? – chiese Perpignano.
– Per costringerlo a riprendere vigorosamente l’assedio della città. Sono otto giorni che le truppe rimangono quasi inoperose e che rumoreggiano.
– Infatti tutti lo abbiamo notato, – disse Perpignano. – Forse che il Gran vizir è ammalato?
– Sembra anzi che stia benissimo. È il suo cuore che è incatenato.
– Che cosa vuoi dire, El-Kadur? – chiese Capitan Tempesta.
– Che una fanciulla cristiana della Canea, lo ha affascinato. Il vizir è innamorato e forse, dietro consiglio di quella beltà, vi ha accordato una lunga tregua.
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