Emilio Salgari - Capitan Tempesta
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– Possibile che gli occhi d’una donna possano esercitare tanta influenza su quel crudele capitano? – disse il tenente.
– Si dice che sia d’una bellezza meravigliosa. Tuttavia io non vorrei trovarmi al suo posto, perchè l’esercito intero reclama la sua morte considerandola come l’unico ostacolo alle operazioni di guerra.
– E credi tu che il vizir cederà dinanzi alla volontà dei suoi soldati? – chiese Capitan Tempesta.
– Vedrete che non oserà resistere rispose l’arabo. – Il sultano tiene delle spie al campo e, se venisse informato del malumore che regna fra i suoi guerrieri, non indugerebbe a regalare al comandante supremo un laccio di seta, e voi sapete che cosa significhi un simile dono: o appiccarsi o venire impalato.
– Povera fanciulla! – esclamò Capitan Tempesta, con voce commossa. – E dopo?
– Quando quell’adorabile candiotta non esisterà più, potete aspettarvi un assalto furibondo. Le orde islamite sono stanche della lunghezza di questo assedio e si rovesceranno su Famagosta, come un mare in tempesta e spazzeranno via ogni cosa.
– Saremo pronti a riceverle come si meritano, – disse Perpignano. – Le nostre spade e le nostre corazze sono solide ed i nostri cuori non tremano.
L’arabo scosse il capo, guardando con angoscia la duchessa, poi disse con un sospiro:
– Sono troppi.
– A meno che non prendano la città per sorpresa.
– Ci sarò sempre io per avvertirvi in tempo. Devo tornare al campo turco, padrone?
Capitan Tempesta non rispose.
Appoggiato al parapetto, ascoltava le vociferazioni spaventevoli degli assedianti e seguiva con uno sguardo inquieto le miriadi di torce che s’agitavano burrascosamente intorno all’alta tenda del gran vizir.
In mezzo a quel baccano assordante, che pareva il muggito d’un mare sconvolto dai venti, s’udivano ad intervalli migliaia di voci che urlavano:
– Morte alla schiava! Vogliamo la sua testa!
Poi i timballi, le trombe e gli spari coprivano quelle grida feroci e tutte quelle urla, che sfuggivano da centomila petti, si fondevano in un ruggito spaventevole, come se il campo degli infedeli fosse stato improvvisamente invaso da legioni e legioni di belve feroci, sbucate dai deserti africani ed asiatici.
– Debbo tornare, padrone? – tornò a chiedere l’arabo.
Capitan Tempesta si scosse e rispose:
– Sì, va, mio buon El-Kadur. Approfitta di questo istante di tregua e non stancarti nelle tue ricerche se vuoi vedermi felice.
Negli occhi del figlio del deserto passò come un’ombra d’infinita tristezza, poi disse, con accento rassegnato:
– Farò quello che vorrete, padrone, pur di veder le vostre belle labbra a sorridere e la vostra fronte serena.
Capitan Tempesta fece cenno al suo tenente di rimanere, poi accompagnò l’arabo verso il parapetto del bastione.
– Tu mi hai detto che il capitano Laczinki è ancora vivo, – disse.
– È vero, signora, nè pare che per ora abbia alcuna voglia di morire.
– Veglia su di lui.
– Che cosa temete, padrona, da quel rinnegato? – chiese l’arabo levandosi minaccioso in tutta la sua altezza.
– Sento in lui un nemico.
– Per quale motivo dovrebbe odiarvi?
– Egli ha scoperto che io sono una donna invece d’un uomo.
– Che vi ami invece? – chiese El-Kadur, mentre il suo volto si trasfigurava sotto un improvviso scoppio d’ira terribile.
– Chi lo sa, – rispose la duchessa. – Potrebbe odiarmi perchè la donna ha abbattuto il Leone di Damasco e potrebbe anche segretamente amarmi. Non è facile comprendere il cuore umano.
– Il visconte Le Hussière sì, ma quel polacco, no! – disse l’arabo con voce fremente.
– Supporresti che io amassi quell’avventuriero?
– Non lo crederei mai, signora, ma se così fosse… El-Kadur ha un jatagan nella cintura e lo immergerà tutto nel petto di quel rinnegato.
Si leggeva in quel momento sul viso del selvaggio figlio dell’Arabia una tale espressione di collera, che Capitan Tempesta ne fu impressionato. Vi era una disperazione intensa, terribile.
– Non temere, mio povero El-Kadur, – disse la duchessa. – O le Hussière o nessuno. Amo troppo quel valoroso.
L’arabo si portò una mano sul cuore, conficcandosi le unghie nella carne, come se avesse voluto soffocarne i battiti e chinò il capo, nascondendo il viso nell’alto colletto del suo mantello.
– Addio, signora, – disse dopo qualche istante. – Veglierò su quell’uomo nel quale sento anch’io un nemico della vostra felicità, ma veglierò come il leone spia la preda che agogna. Quando lo comanderete il povero schiavo ucciderà.
Poi, senza attendere la risposta della duchessa, balzò sul parapetto e si lasciò scivolare giù dalla scarpa, scomparendo rapidamente fra le tenebre.
La giovane duchessa era rimasta immobile, cercando di discernere attraverso le ombre della notte il taub del suo fedele schiavo.
– Come deve sanguinare il suo cuore! – mormorò. – Povero El-Kadur. Sarebbe stato meglio per te che mio padre non ti avesse liberato dal tuo crudele padrone.
Perpignano, vedendola sola, s’era fatto innanzi.
– Pare che i turchi si siano calmati, – le disse. – Che abbiano assassinata la cristiana? Quelle canaglie sono capaci di tutto: quando la collera li prende non rispettano nè donne, nè fanciulli.
– Purtroppo, – sospirò la duchessa.
Infatti le grida erano cessate nel campo turco e non si udivano più nè i timballi della cavalleria, nè gli squilli delle trombe. Si scorgevano invece sempre quelle miriadi di fiaccole radunarsi or qua ed or là, ed ora disperdersi per l’immenso campo in lunghissime file che formavano delle capricciose linee di fuoco, spiccanti vivamente fra la profonda oscurità della notte piovigginosa.
I capitani cristiani, accortisi che almeno per quel momento gli infedeli non avevano alcuna intenzione di muovere all’attacco della città, avevano rimandate le loro compagnie nelle casematte, non lasciando che delle forti guardie sui bastioni principali, specialmente intorno alle colubrine.
La notte, come già El-Kadur aveva predetto, passò senza allarmi e gli assediati poterono riposarsi tranquillamente.
Appena l’aurora comparve, fugando le ultime stelle, quattro cavalieri turchi che portavano sulle alabarde dei drappi di seta bianca e che erano preceduti da un trombettiere, si presentarono sotto il bastione di San Marco sulla cui piattaforma si radunavano ordinariamente i capitani cristiani, chiedendo ad alta voce un breve armistizio, onde farli assistere ad uno spettacolo straordinario, che, assicuravano, avrebbe dovuto influire assai sulle sorti della guerra.
Credendo che si trattasse di qualche nuova sfida, come succedeva di frequente, i comandanti veneti, che non volevano d’altronde irritare troppo quei barbari, che tenevano ormai nelle loro mani le sorti della disgraziata città, dopo un breve consiglio, acconsentirono, promettendo che non avrebbero aperto il fuoco prima del mezzodì.
Dieci minuti dopo che i cavalieri erano tornati al campo, gli assediati che si erano radunati sulle mura e sui bastioni, non fidandosi delle promesse di quei barbari, videro spiegarsi nella pianura le innumerevoli orde nemiche, sfilando per battaglioni, come in una grande rivista.
S’avanzavano prima gli artiglieri dalle vesti variopinte e gli ampi calzoni, seguiti da duecento colubrine trainate da superbi cavalli arabi impennacchiati e infioccati e con ricche gualdrappe rosse; poi s’avanzavano le compagnie dei giannizzeri, quei terribili guerrieri che formavano il nerbo dell’esercito turco, uomini che non avevano paura della morte e che una volta lanciati, nè spade, nè colubrine, nè moschetti potevano arrestare.
Poi si avanzavano gli albanesi, coi loro sfarzosi costumi, le sottanine bianche ed ampie ed i ricchi e vasti turbanti e le fasce riboccanti di pistoloni e di jatagan; gli irregolari dell’Asia Minore, armati di archibugi, di alabarde e perfino di balestre usate cent’anni prima, coperti di cotte d’acciaio scintillanti e forniti di ampi scudi che forse datavano dal tempo delle crociate ed infine immense colonne di cavalieri arabi ed egiziani, avvolti nei loro mantelli bianchi, abbelliti all’estremità da larghe righe rosse ed infioccati.
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