Emilio Salgari - Il Corsaro Nero

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Il Corsaro, nascosto dietro il tronco d’una palma, lo guardava attentamente, ammirando forse la risolutezza di quel negro che, quasi inerme, andava ad affrontare un uomo bene armato e certamente risoluto.

– Ha del fegato il compare, – disse Carmaux.

Il Corsaro fece un cenno affermativo col capo, ma non pronunciò una sola parola. Continuava a guardare l’africano il quale strisciava al suolo come un serpente avvicinandosi lentamente al palazzo del Governatore.

Il soldato si allontanava allora dall’angolo, dirigendosi verso il portone, era armato di un’alabarda ed al fianco portava anche una spada.

Vedendo che gli volgeva le spalle, Moko strisciava piú velocemente tenendo in mano il lazo. Quando giunse a dodici passi si alzò rapidamente, fece volteggiare in aria due o tre volte la corda, poi la lanciò con mano sicura. S’udí un leggero sibilo, poi un grido soffocato ed il soldato stramazzò al suolo, lasciando cadere l’alabarda ed agitando pazzamente le gambe e le braccia.

Moko, con un balzo da leone, gli era piombato addosso. Imbavagliarlo strettamente colla fascia rossa che portava alla cintola, legarlo per bene e portarlo via come se fosse stato un fanciullo, fu l’affare di pochi istanti.

– Eccolo, – disse, gettandolo ruvidamente ai piedi del capitano.

– Sei un valente, – rispose il Corsaro. – Legalo a questo albero e seguimi.

Il negro obbedí aiutato da Carmaux, poi tutti e due raggiunsero il Corsaro, il quale esaminava gli appiccati dondolanti dalle forche.

Giunti in mezzo alla piazza, il capitano s’arrestò dinanzi ad un giustiziato che indossava un costume rosso e che, per amara derisione, teneva fra le labbra un pezzo di sigaro.

Nel vederlo, il Corsaro aveva mandato un vero grido di orrore.

– I maledetti!… – esclamò. – Mancava a loro l’ultimo disprezzo!

La sua voce, che pareva il lontano ruggito d’una fiera, terminò in uno straziante singhiozzo.

– Signore, – disse Carmaux, con voce commossa, – siate forte!

Il Corsaro fece un gesto colla mano indicandogli l’appiccato.

– Subito, mio capitano, – rispose Carmaux.

Il negro si era arrampicato sulla forca, tenendo fra le labbra il coltello del filibustiere. Recise con un colpo solo la fune, poi calò giú il cadavere, adagio, adagio.

Carmaux gli si era fatto sotto. Quantunque la putrefazione avesse cominciato a decomporre le carni del Corsaro Rosso, il filibustiere lo prese delicatamente fra le braccia e l’avvolse nel mantello nero che il capitano gli porgeva.

– Andiamo – disse il Corsaro, con un sospiro. – La nostra missione è finita e l’oceano aspetta la salma del valoroso.

Il negro prese il cadavere, se lo accomodò fra le braccia, lo coprí per bene col mantello, e poi tutti e tre abbandonarono la piazza, tristi e taciturni. Quando però giunsero all’estremità, il Corsaro si volse guardando un’ultima volta i quattordici appiccati, i cui corpi spiccavano lugubremente fra le tenebre, e disse con voce mesta:

– Addio, valorosi disgraziati; addio compagni del Corsaro Rosso! La filibusteria vendicherà ben presto la vostra morte.

Poi, fissando con due occhi ardenti il palazzo del Governatore giganteggiante in fondo alla piazza, aggiunse con voce cupa:

– Tra me e te, Wan Guld, sta la morte!…

Si misero in cammino, frettolosi di uscire da Maracaybo e di giungere al mare per tornare a bordo della nave corsara. Ormai piú nulla avevano da fare in quella città, entro le cui vie non si sentivano piú sicuri, dopo l’avventura della posada. Avevano già percorse tre o quattro viuzze deserte, quando Carmaux, che camminava dinanzi a tutti, credette di scorgere delle ombre umane, seminascoste sotto l’oscura arcata d’una porta.

– Adagio, – mormorò, volgendosi verso i compagni. – Se non sono diventato cieco, vi sono delle persone che mi pare ci attendano.

– Dove? – chiese il Corsaro.

– Là sotto.

– Forse ancora gli uomini della posada?

– Mille pesci… cani!… Che siano i cinque baschi colle loro navaje?

– Cinque non sono troppi per noi, e faremo pagare caro l’agguato, – disse il Corsaro sguainando la spada.

– La mia sciabola d’arrembaggio avrà buon gioco sulle loro navaje!… – disse Carmaux.

Tre uomini avvolti in grandi mantelli fioccati, dei serapé senza dubbio, si erano staccati dall’angolo d’un portone occupando il marciapiede di destra, mentre due altri, che fino allora si erano tenuti celati dietro un carro abbandonato, chiudevano il passo sul marciapiede di sinistra.

– Sono i cinque baschi, – disse Carmaux. – Vedo le navaje luccicare alle loro cintole.

– Tu incaricati dei due di sinistra ed io dei tre di destra, – disse il Corsaro, – e tu, Moko, non occuparti di noi e prendi il largo col cadavere. Ci aspetterai sul margine della foresta.

I cinque baschi si erano sbarazzati dei mantelli piegandoli in quattro e ponendoseli sul braccio sinistro, poi avevano aperto i loro lunghi coltellacci dalla punta acuta come le lame delle spade:

– Ah!… Ah!… – disse colui che era stato respinto da Carmaux.

– Pare che non ci siamo ingannati.

– Largo!… – gridò il Corsaro, che si era messo dinanzi ai compagni.

– Adagio, caballero, – disse il basco, facendosi innanzi.

– Che cosa vuoi tu?…

– Soddisfare una piccola curiosità che ci cruccia.

– E quale?

– Sapere chi siete voi, caballero.

– Un uomo che uccide chi gli dà impiccio, – rispose fieramente il Corsaro, avanzandosi colla spada in pugno.

– Allora vi dirò, caballero, che noi siamo uomini che non hanno paura, e che non ci faremo uccidere come quel povero diavolo che avete inchiodato al muro. Il vostro nome ed i vostri titoli o non uscirete da Maracaybo. Siamo ai servizi del signor Governatore e dobbiamo rispondere delle persone che passeggiano per le vie ad un’ora cosí tarda.

– Se volete saperlo, venite a chiedermi il mio nome, – disse il Corsaro mettendosi rapidamente in guardia. – A te i due di destra, Carmaux.

Il filibustiere aveva sguainata la sciabola d’arrembaggio e muoveva risolutamente contro i due avversari che impedivano il passo sul marciapiede opposto.

I cinque baschi non si erano mossi, aspettando l’assalto dei due filibustieri. Fermi sulle gambe che tenevano un po’ aperte per essere piú pronti a tutte le evoluzioni, colla mano sinistra stretta contro la cintura e la destra attorno al manico della navaja, ma col pollice appoggiato sulla parte piú larga della lama, aspettavano il momento opportuno per scagliare i colpi mortali.

Dovevano essere cinque diestros, ossia valenti, ai quali non dovevano essere sconosciuti i colpi piú famosi, né il javeque, ferita ignominiosa che sfregia il viso, né il terribile desjarretazo che si avventa per di dietro, sotto l’ultima costola e che recide la colonna vertebrale.

Vedendo che non si decidevano, il Corsaro, impaziente di aprirsi il passo, piombò sui tre avversari che gli stavano di fronte, vibrando botte a destra ed a manca con velocità fulminea, mentre Carmaux caricava gli altri due sciabolando come un pazzo.

I cinque diestros non si erano per questo sgomentati. Dotati di una agilità prodigiosa, balzavano indietro parando i colpi ora colle larghe lame dei loro coltellacci ed ora coi serapé, che tenevano avvolti intorno al braccio sinistro.

I due filibustieri erano diventati prudenti, essendosi accorti di avere da fare con degli avversari pericolosi.

Quando però videro il negro allontanarsi col cadavere e perdersi fra l’oscurità della via tornarono furiosamente alla carica, frettolosi di sbrigarsela prima che qualche guardia, attirata da quel cozzare di ferri, potesse giungere in aiuto dei baschi.

Il Corsaro, la cui spada era ben piú lunga delle navaje e la cui abilità nella scherma era straordinaria, poteva avere buon gioco, mentre Carmaux era costretto a tenersi molto in guardia essendo la sua sciabola assai corta.

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