Emilio Salgari - Il Corsaro Nero

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– Eh!… per tutti i Santi… – gridò il bravaccio con cipiglio. – Si vede che voi non conoscete don Gamaraley Miranda, conte di Badajoz, nobile di Camargua, e visconte di…

– Di casa del diavolo, – disse il Corsaro Nero, alzandosi bruscamente e guardando fisso il bravaccio. – E cosí, caballero, conte, marchese, duca, eccetera?…

Il signor di Gamara e d’altri luoghi ancora arrossí come una peonia, poi impallidí, dicendo con voce rauca:

– Per tutte le streghe dell’inferno!… Non so chi mi tenga dal mandarvi all’altro mondo a tenere compagnia a quel cane di Corsaro Rosso che fa cosí bella mostra sulla Plaza de Granada ed ai suoi quattordici birbanti.

Questa volta fu il Corsaro che impallidí orribilmente. Con un gesto trattenne Carmaux che stava per scagliarsi contro l’avventuriero, si sbarazzò del mantello e del cappello e con un rapido gesto snudò la spada, dicendo con voce fremente:

– Il cane sei tu e chi andrà a tenere compagnia agli appiccati sarà la tua anima dannata.

Fece cenno agli spettatori di fare largo e si mise di fronte all’avversario, ponendosi in guardia con una eleganza e con una sicurezza da sconcertare l’avversario.

– A noi, conte di casa del diavolo – disse coi denti stretti. – Fra poco qui vi sarà un morto.

L’avventuriero si era messo in guardia, ma ad un tratto si rialzò, dicendo:

– Un momento, caballero. Quando s’incrocia il ferro si ha il diritto di conoscere il nome dell’avversario.

– Sono piú nobile di te, ti basta?…

– No, è il nome che voglio sapere.

– Lo vuoi?… Sia, ma peggio per te, poiché non lo dirai piú a nessuno.

Gli si avvicinò e gli mormorò alcune parole in un orecchio.

L’avventuriero aveva mandato un grido di stupore e fors’anche di spavento e aveva fatto due passi indietro come se avesse voluto rifugiarsi fra gli spettatori e tradire il segreto; ma il Corsaro Nero aveva cominciato ad incalzarlo vivamente, costringendolo a difendersi.

I bevitori avevano formato un ampio circolo attorno ai duellanti. Il negro e Carmaux erano in prima linea, però non sembravano affatto preoccupati dell’esito di quello scontro, specialmente l’ultimo che sapeva di quanto era capace il fiero corsaro. L’avventuriero, fino dai primi colpi, si era accorto d’aver dinanzi un avversario formidabile, deciso ad ucciderlo al primo colpo falso, e ricorreva a tutte le risorse della scherma per parare le botte che grandinavano.

Quell’uomo non era però uno spadaccino da disprezzarsi. Alto di statura, grosso e robustissimo, dal polso fermo e dal braccio vigoroso, doveva opporre una lunga resistenza e si capiva che non era facile a stancarsi.

Il Corsaro tuttavia, snello, agile, dalla mano pronta, non gli dava un istante di tregua, come se temesse che approfittasse della minima sosta per tradirlo.

La sua spada lo minacciava sempre, costringendolo a continue parate. La punta scintillante balenava dappertutto, batteva forte il ferro dell’avventuriero, facendo sprizzare scintille, e andava a fondo con una velocità cosí fulminea da sconcertare l’avversario.

Dopo due minuti l’avventuriero, non ostante il suo vigore poco meno che erculeo, cominciava a sbuffare ed a rompere. Si sentiva imbarazzato a rispondere a tutte le botte del Corsaro e non conservava piú la calma primiera. Sentiva che la pelle correva un gran pericolo e che avrebbe finito davvero coll’andare a tenere poco allegra compagnia agli appiccati della Plaza de Granada.

Il Corsaro invece pareva che avesse appena sfoderata la spada. Balzava innanzi con un’agilità da giaguaro, incalzando sempre con crescente vigore l’avventuriero. Solamente i suoi sguardi, animati da un cupo fuoco, tradivano la collera della sua anima. Quegli occhi non si staccavano un solo istante da quelli dell’avversario, come se volessero affascinarlo e turbarlo. Il cerchio degli spettatori si era aperto per lasciare campo all’avventuriero, il quale retrocedeva sempre, avvicinandosi alla parete opposta.

Carmaux, sempre in prima fila, cominciava a ridere, prevedendo presto lo scioglimento di quel terribile scontro.

Ad un tratto l’avventuriero si trovò addosso al muro. Impallidí orribilmente e grosse gocce di sudore freddo gli imperlarono la fronte.

– Basta… – rantolò, con voce affannosa.

– No, – gli disse il Corsaro, con accento sinistro. – Il mio segreto deve morire con te.

L’avversario tentò un colpo disperato. Si rannicchiò piú che poté, poi si scagliò innanzi, vibrando tre o quattro stoccate una dietro l’altra.

Il Corsaro, fermo come una rupe, le aveva parate con eguale rapidità.

– Ora t’inchioderò sulla parete, – gli disse.

L’avventuriero, pazzo di spavento, comprendendo ormai di essere perduto, si mise a urlare.

– Aiuto!… Egli è il Co…

Non finí. La spada del Corsaro gli era entrata nel petto, inchiodandolo nella parete e spegnendogli la frase.

Un getto di sangue gli uscí dalle labbra macchiandogli la corazza di pelle che non era stata sufficiente a ripararlo da quel tremendo colpo di spada, sbarrò spaventosamente gli occhi, guardando l’avversario con un ultimo lampo di terrore, poi stramazzò pesantemente al suolo, spezzando in due la lama che lo tratteneva al muro.

– Se n’è andato, – disse Carmaux, con un accento beffardo.

Si curvò sul cadavere, gli strappò di mano la spada e porgendola al capitano che guardava con occhio tetro l’avventuriero, gli disse:

– Giacché l’altra si è spezzata, prendete questa. Per bacco!… È una vera lama di Toledo, ve lo assicuro, signore.

Il Corsaro prese la spada del vinto senza dir verbo, andò a prendere il cappello, gettò sul tavolo un doblone d’oro e uscí dalla posada seguito da Carmaux e dal negro, senza che gli altri avessero osato trattenerlo.

CAPITOLO V. L’APPICCATO

Quando il Corsaro ed i suoi compagni giunsero sulla Plaza de Granada, l’oscurità era cosí profonda, da non potersi distinguere una persona a venti passi di distanza.

Un profondo silenzio regnava sulla piazza, rotto solamente dal lugubre gracidare di qualche urubu, vigilante sulle quindici forche degli appiccati. Non si udivano nemmeno piú i passi della sentinella posta dinanzi al palazzo del Governatore, la cui massa giganteggiava dinanzi alle forche.

Tenendosi presso i muri delle case o dietro ai tronchi delle palme, il Corsaro, Carmaux ed il negro s’avanzavano lentamente, cogli orecchi tesi, gli occhi bene aperti e le mani sulle armi, tentando di giungere inosservati presso i giustiziati.

Di tratto in tratto, quando qualche rumore echeggiava per la vasta piazza, s’arrestavano sotto la cupa ombra di qualche pianta o sotto l’oscura arcata di qualche porta, aspettando, con un certa ansietà, che il silenzio fosse tornato.

Erano già giunti a pochi passi dalla prima forca, dalla quale dondolava, mosso dalla brezza notturna, un povero diavolo quasi nudo, quando il Corsaro additò ai compagni una forma umana che si agitava sull’angolo del palazzo del Governatore.

– Per mille pescicani!… – borbottò Carmaux. – Ecco la sentinella!… Quell’uomo verrà a guastarci il lavoro.

– Ma Moko è forte, – disse il negro. – Io andrò a rapire quel soldato.

– E ti farai bucare il ventre, compare.

Il negro sorrise, mostrando due file di denti bianchi come l’avorio, e cosí acuti da fare invidia ad uno squalo, dicendo:

– Moko è astuto e sa strisciare come i serpenti che incanta.

– Va’, – gli disse il Corsaro. – Prima di prenderti con me, voglio avere una prova della tua audacia.

– L’avrete, padrone. Io prenderò quell’uomo come un tempo prendevo gli jacaré della laguna.

Si tolse dai fianchi una corda sottile, di cuoio intrecciato e che terminava in un anello, un vero lazo, simile a quello usato dai vaqueros messicani per dare la caccia ai tori, e s’allontanò silenziosamente, senza produrre il menomo rumore.

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