Emilio Salgari - Il re del mare
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Tutti si erano arrestati, guardando con ansietà quei falò e cercando di rendersi conto delle forze degli assedianti.
– Eccoci in un bell’impiccio, – mormorava Yanez. – Sarebbe un’imprudenza avventarsi alla cieca contro forze che potrebbero essere venti volte superiori e d’altronde sarebbe una follia aspettare l’alba. Mancherebbe la sorpresa e potremmo venire ricacciati.
– Signore, – disse il pilota in quel momento. – Che cosa decidete?
– Credi che siano molti gli assedianti?
– A giudicarlo dal numero dei fuochi si potrebbe crederlo. Volete che vada ad accertarmi delle loro forze?
– Yanez lo guardò con diffidenza.
– Sospettate di me, è vero? – disse il malese, sorridendo. – Avete ragione: fino a ieri io ero un vostro nemico. Eppure avete torto: ormai ho rotto tutto con quegli uomini e preferisco essere contato fra i vostri uomini che sono malesi al pari di me, anzichè con quei selvaggi.
– Potrai essere di ritorno prima che il sole sorga?
– Non comparirà prima di mezz’ora ed io vi prometto di essere di ritorno fra dieci minuti.
– Dammi dunque una prova della tua fedeltà, – disse Yanez.
– L’avrete, signore.
Il malese si fece dare un parang, fece un gesto d’addio e si allontanò, gettandosi in mezzo ad una piantagione di zenzero che gli assedianti non avevano ancora distrutta.
Yanez, coll’orologio alla mano contava i minuti. Temeva vivamente che il pilota tardasse, e che la luce si diffondesse prima del suo ritorno, rendendo impossibile una sorpresa.
Ne aveva contati sei, quando Padada comparve, correndo a corsa sfrenata.
– Ebbene? – chiese Yanez, muovendogli incontro.
– Il grosso che ha operato contro di noi alla foce del fiume non è ancora giunto. Gli assedianti non sono più d’un centinaio e le loro file sono così deboli da non poter resistere ad un urto improvviso.
– Hanno armi da fuoco?
– Sì, signore.
– Bah! Sappiamo come se ne servono.
Si volse verso i suoi uomini che lo avevano raggiunto e aspettavano il comando di dare addosso ai nemici.
– Date dentro a corpo perduto, – disse loro. – Le tigri di Mompracem mostrino in quale conto tengono questi tagliatori di teste.
– Quando ce l’ordinerete, noi sfonderemo tutto, signor Yanez, – rispose il più vecchio. – Voi sapete che noi non abbiamo mai avuto paura.
– Accostiamoci in silenzio e prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io. Formiamo la colonna d’assalto.
Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli.
Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime.
La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti.
I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò.
Trecento metri più oltre s’alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d’assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe.
Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s’alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna.
– Tangusa, – disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria, – dove si trova il passaggio?
– Di fronte a noi, signore.
– Non cadremo in mezzo alle spine?
– Vi guido io.
– Siete pronti? – chiese Yanez rivolgendosi ai pirati.
– Pronti tutti, capitano.
– Caricate al grido «Viva Mompracem!» onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti!
I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche.
Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d’assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola:
– Viva Mompracem!
I tagliatori di teste, sorpresi da quell’improvviso assalto, che erano ben lungi dall’aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l’animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta.
Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò:
– Fermi! Sono amici! Aprite la porta!
– Ohe, amico Tremal-Naik, – gridò Yanez con voce giuliva. – Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki.
– Yanez! – esclamò l’indiano, con una vera esplosione di gioia.
– Chi credevi che fosse dunque?
– Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa!
Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria.
Un uomo di statura piuttosto alta, un po’ attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po’ abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese.
Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino.
– Qui, sul mio petto, amico Yanez! – aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. – È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia?
– Muore di salute.
– E la tua Surama?
– Mi ama sempre intensamente. E Darma dov’è che non la vedo?
– La tigre o mia figlia?
– L’una e l’altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia.
– Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri.
– Come! il maharatto non è qui? – esclamò Yanez.
– Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest’ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem.
– Lo ritroveremo più tardi.
– Vieni, amico, – disse Tremal-Naik. – Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa’ gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem.
S’avviò verso il bengalow che s’alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l’amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all’intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù.
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