Emilio Salgari - Il re del mare
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– Si direbbe che ho un brutto presentimento, – mormorò con inquietudine. – Che lo perda?
Scacciò l’importuno pensiero e si mise alla testa della scorta, preceduto di pochi passi dal meticcio e dal pilota, i soli che potessero orientarsi in mezzo a quel caos di enormi vegetali e fra le reti immense formate dai nepentes, dai gomuti e dai rotangs.
Come al mattino un silenzio profondo regnava sotto quella infinita volta di verzura, come se quella foresta fosse assolutamente priva di animali feroci e di selvaggina. Persino gli uccelli notturni, quei grossi pipistrelli pelosi, che sono così comuni nelle isole malesi, mancavano. Solo le lucertole cantanti, che sono per lo più notturne, facevano udire di tratto in tratto il loro lieve grido stridente.
Essendo il cielo coperto, un’afa pesante regnava sotto le immense foglie, incrociantisi strettamente a trenta o quaranta metri dal suolo.
– Si direbbe che minaccia un uragano, – disse Yanez che respirava con grande fatica.
– E scoppierà presto, signore, – rispose il meticcio. – Ho veduto il sole tramontare fra una nuvola nerastra e giungeremo appena a tempo al kampong.
– Se nessuno ci arresterà.
– Finora, signore, i dayaki non si sono mostrati.
– Purchè non li troviamo presso il kampong. Speriamo che abbiano levato l’assedio.
– Non saranno tanti da opporre una seria resistenza, almeno pel momento. Quelli che ci hanno aspettati alla foce del fiume forse non sono ancora tornati.
– Se tardassero solo ventiquattro ore, non li temerei più, – rispose Yanez. – La Marianna, con equipaggio rinforzato, diverrebbe imprendibile. Avrà molti difensori Tremal-Naik?
– Suppongo che abbia potuto raccogliere una ventina di malesi, signor Yanez.
– Avremo così un piccolo esercito che darà da fare a quel maledetto pellegrino. Affrettiamo il passo e cerchiamo di giungere al kampong prima che l’alba sorga.
La foresta non permetteva però che si avanzassero così rapidamente come avrebbero desiderato, essendo caduti in mezzo ad una antica piantagione di pepe che avvolgeva gli alberi in una rete assolutamente inestricabile.
Le grosse piante non erano riuscite a soffocare i sarmenti altissimi i quali, ripiegandosi verso il suolo e collegandosi coi rotangs ed i calamus o avvolgendosi intorno alle mostruose radici uscite dal suolo per mancanza di spazio, formavano un intrecciamento colossale che opponeva una solida resistenza.
– Mano ai parangs, – disse Yanez, vedendo che le due guide non riuscivano a passare.
– Faremo rumore, – osservò il pilota.
– Non ho già alcuna voglia di tornarmene indietro.
– I dayaki possono udirci, signore.
– Se ci assalgono li riceveremo come si meritano. Affrettiamoci.
A colpi di sciabola riuscirono ad aprirsi un varco e sempre sciabolando a destra ed a manca, continuarono ad inoltrarsi nell’interminabile foresta.
Marciavano da un’ora, lottando ostinatamente contro le piante, quando il pilota s’arrestò bruscamente, dicendo:
– Fermi tutti.
– I dayachì? – chiese sotto voce Yanez, che lo aveva subito raggiunto.
– Non lo so, signore.
– Hai udito qualche cosa?
– Dei rami scricchiolare dinanzi a noi.
– Andiamo a vedere, Tangusa, e voi tutti rimanete qui e non fate fuoco se io non vi do il segnale.
Si gettò a terra trovandosi dinanzi a un caos di radici e di sarmenti e si mise a strisciare verso il luogo dove il malese asseriva d’aver udito i rami scricchiolare.
Il meticcio gli si era messo dietro cercando di non far rumore.
Percorsero così una cinquantina di metri e s’arrestarono sotto le enormi corolle d’un fiore mostruoso, un crubul che aveva una circonferenza di oltre tre metri, e che tramandava un odore poco piacevole.
Essendovi intorno a quel fiore un po’ di spazio libero, era facile scoprire degli uomini che si avanzassero attraverso la foresta.
– Padada non si era ingannato, – disse Yanez, dopo essere rimasto qualche po’ in ascolto.
– Sì, qualcuno si avvicina, – confermò il meticcio.
– E questo cos’è? – chiese a un tratto Yanez.
In lontananza si udì in quel momento un rombo strano che pareva prodotto dall’avanzarsi di qualche furgone o d’un treno ferroviario.
– Non è il tuono, – disse il portoghese.
– Non lampeggia ancora, – disse Tangusa.
– Si direbbe che un fiume ha rotto gli argini e straripa.
– Non è caduta ancora una goccia d’acqua e poi il Kabatuan è lontano.
– Che cosa sarà?
– E s’approssima rapidamente, signore.
– Verso di noi?
– Sì.
– Taci!
Appoggiò un orecchio al suolo ed ascoltò nuovamente, trattenendo il respiro.
La terra trasmetteva nettamente quel rombo inesplicabile che pareva prodotto dal rapido avanzarsi di masse enormi.
– Non comprendo assolutamente nulla, – disse finalmente Yanez, rialzandosi. – È meglio che ci ripieghiamo verso la scorta; chissà che il pilota non ci spieghi questo mistero.
Sgusciarono sotto i giganteschi petali del crubul e rifecero il cammino percorso, scivolando fra gli infinti sarmenti.
Quando raggiunsero il luogo ove avevano lasciati i loro uomini, s’avvidero che anche la scorta era in preda ad una viva agitazione, udendosi anche là quel fragore. Solo Padada pareva tranquillo.
– Da che cosa proviene questo baccano? – gli chiese Yanez.
– È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo, signore, – rispose il pilota. – Saranno certamente moltissimi.
– Degli elefanti! E chi può aver spaventato quei colossi?
– Degli uomini, io credo.
– Che i dayaki si avanzino da ponente? È di là che il fragore viene.
– È quello che pensavo anch’io.
– Che cosa mi consigli di fare?
– Di allontanarci al più presto.
– Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via?
– È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati.
– Avanti dunque, – comandò il portoghese, con voce risoluta. – Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayaki.
Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotangs ed i calamus, mentre il fragore aumentava rapidamente d’intensità.
Il pilota doveva aver indovinato giusto. Fra il fracasso assordante prodotto dall’incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d’uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori.
Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta.
Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi.
Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato.
Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente:
– Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono!
Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti.
Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda.
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