Emilio Salgari - Il tesoro della montagna azzurra
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– E di quale carne? – domandò Reton.
– Mil diables ! – esclamò il pescatore americano, che aveva raggiunti i camerati. – Ce n’è perfino troppa su questa zattera del malanno! Uno di meno non sarà gran cosa.
– Che vuoi dire, John? – chiese il bosmano atterrito.
– Che così non si può andare avanti e che è arrivato il momento di prendere una decisione.
– Quale?
– La diremo domani al capitano.
– Tu hai qualche brutto pensiero, Jonathan, – disse Reton.
– Vedremo se i miei camerati lo troveranno buono o cattivo.
– Io l’approvo già, – asserì Emanuel.
– Taci tu, – rispose Reton con ira.
– Siamo tutti uguali su questa zattera, perché la mia pelle vale quanto la vostra, bosmano.
Reton, furioso, alzò la destra e lasciò andare un manrovescio; ma il marinaio, che si teneva in guardia, con un salto da coguaro fu lesto a fuggire, prorompendo in una fragorosa risata.
– Lascia andare quel ragazzo, Reton, – soggiunse il gabbiere, vedendo che il bosmano si preparava a rinnovare l’attacco. – Sai che ama scherzare e che non conta affatto.
– Io voglio sapere che cosa avete deciso, – disse il bosmano.
– Ti ho detto che lo diremo domani al capitano, – rispose John. – Non c’è alcuna fretta per il momento.
Reton, comprendendo che non sarebbe riuscito a saper nulla e non volendo irritare quegli animi troppo inaspriti dalle lunghe privazioni, si allontanò brontolando. Dopo tutto poteva ancora illudersi di essersi ingannato sul vero significato di quelle parole, non avendo assistito alla riunione di poco prima.
– Bah! – disse tra sé. – Forse proporranno al capitano di cambiare rotta. Non inquietiamo don Josè.
Fingendo che nulla fosse accaduto, aveva ripreso il suo posto presso il timone, sebbene non fosse necessaria alcuna manovra, poiché la calma non si era rotta nemmeno con il cadere della notte e la zattera rimaneva immobile, con la sua vela pendente tristemente lungo l’albero. La notte trascorse senza alcun altro avvenimento degno di nota. Se però il bosmano avesse meglio sorvegliato, avrebbe potuto scorgere dei corpi umani scivolare con cautela fra gli oggetti ingombranti il galleggiante e svegliare gli uomini che dormivano e scambiarsi delle rapide parole. Il capitano si era addormentato e lui, non volendo lasciare quel posto, sempre con la speranza che un po’ di brezza si alzasse di momento in momento, non aveva fatta più alcuna escursione verso prora, sicché quelle misteriose manovre gli erano sfuggite. D’altronde una parte dei marinai aveva ripreso il suo posto, fingendo sempre di dare la caccia ai pesci che mancavano invece assolutamente. Verso le sette, il capitano si svegliò e l’intero equipaggio avanzò in gruppo compatto verso poppa, capitanato dal pilota dell’ Andalusia , un pezzo di gigante, forte come un toro, che aveva nelle vene più sangue indiano che europeo. Apparentemente nessuno era armato; era però possibile che sotto le casacche avessero, se non delle scuri, almeno i loro coltelli di manovra.
– Che cosa volete? – chiese il capitano, sorpreso di vedere i suoi fedeli marinai avanzare verso di lui in atteggiamento minaccioso, mentre il bosmano scivolava sotto la tenda per avvertire don Pedro e Mina di tenere pronti i fucili.
– Veniamo a reclamare la colazione, comandante, – rispose Hermos con voce decisa. – Sono due giorni che non mangiamo.
– Avete preso dei pesci la notte scorsa? Portateli qui e li divideremo in parti eguali.
– Quali? Senza carne sugli ami non si possono catturare. Voi lo sapete meglio di me.
– E così?
– Io dico che abbiamo bisogno di carne per sfamarci. Non possiamo contare né sulla pesca, né sulla caccia.
Don Josè era diventato pallidissimo e ira e indignazione gli erano balenate nello sguardo. Aveva ormai compreso che cosa stavano per chiedere i suoi marinai. Non volle però dare la soddisfazione di avere indovinato lo scopo di quella riunione. Con uno sforzo supremo si contenne, incrociò le braccia sul petto e fissando ben in viso il pilota:
– Non so che cosa tu voglia, Hermios, – disse con voce abbastanza tranquilla.
– Un altro al vostro posto mi avrebbe perfettamente compreso, senza chiedere ulteriori spiegazioni. Noi abbiamo fame.
– E io non meno di te, – ribatté il capitano con una certa violenza.
– E allora, comandante, si ricorre ai mezzi estremi. Si tratta di perderne uno, mettiamo anche due, per salvarne tredici o quattordici, – disse il pilota. – Hanno fatto così a bordo della zattera della Medusa e mio nonno ha potuto così ritornarsene in patria.
– Miserabile! – esclamò con voce soffocata il capitano. – Questa non è la zattera della Medusa e c›è qui ancora un comandante per tenere a freno un equipaggio. Piuttosto la morte, che assistere alle spaventose scene svoltesi su quel rottame.
– La fame non ragiona, signore, – disse John, facendosi a sua volta avanti. – Poiché voi non potete darci da mangiare, lasciate che ci procuriamo noi dei viveri come possiamo.
– Anche tu, John, vorresti diventare un antropofago?
– Siamo nel paese dei cannibali, capitano! – gridò Emanuel.
– Decidetevi, comandante, – disse Hermos. – Siamo impazienti di decidere.
– Con una estrazione a sorte?
– Si potrebbe farne anche a meno, – rispose il pilota, con un cinico sorriso. – Prenderemo intanto uno di quelli che sono stati la causa di questo disastro. Senza la loro presenza a bordo dell’ Andalusia , noi non ci troveremmo in queste condizioni. Comincino essi a fornirci i mezzi necessari per vivere. Se le loro carni non basteranno, verrà la nostra volta e non ci lamenteremo.
– Mi spiegherai meglio queste oscure parole, – disse il capitano alzando minacciosamente la destra.
– Badate, capitano, che qui noi siamo tutti d’accordo, – rispose il pilota facendo un passo indietro e cacciando una mano dentro la larga fascia di lana rossa che gli cingeva i fianchi e che probabilmente nascondeva il coltello.
– Spiegati meglio, miserabile! – tuonò don Josè.
– Si diceva dunque che qui ci sono delle persone che non hanno mai fatto parte dell’equipaggio dell’ Andalusia e che per avidità d’oro ci hanno condotti alla rovina.
Don Pedro e Mina che stavano dietro il capitano, avevano mandato un grido d’angoscia; poi il primo si era scagliato verso il miserabile, chiedendogli:
– Sono io, dunque, che tu vorresti immolare alla tua fame, è vero?
– No, l’equipaggio preferirebbe vostra…
Il pilota non poté finire la frase. La destra del capitano era caduta sul viso del furfante con tale violenza che parve lo schianto di un albero. L’uomo girò due volte su stesso come una trottola, poi stramazzò a terra, sputando, insieme ad una boccata di sangue anche alcuni denti. Un urlo di furore si alzò fra l’equipaggio. I coltelli da manovra fino allora nascosti nelle fasce o sotto le casacche, scintillarono sinistramente ai raggi del sole. Nello stesso momento Reton balzava fuori dalla tenda portando quattro carabine e gridando:
– A voi capitano! A voi, don Pedro! Prendete, señorita! Sparate senza misericordia su queste canaglie!
Don Josè aveva afferrato la carabina che il bravo mastro gli porgeva e l’aveva puntata risolutamente contro i ribelli gridando con accento terribile:
– Indietro e giù le mani, o faccio fuoco!
L’alta statura del comandante, la collera intensa che traspariva dal suo viso, l’autorità non ancora del tutto perduta e forse più di tutto l’accento imperioso, avevano trattenuto i ribelli. E poi non avevano davanti soltanto un uomo. Anche Pedro, Mina e il bosmano avevano caricate precipitosamente le carabine, dirigendo le canne verso il gruppo.
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