Emilio Salgari - La città del re lebbroso

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«Aprite, signor uomo bianco! Il mio padrone muore!»

Alla seconda battuta la porta si aperse e comparve un uomo vestito di bianco, con in capo un casco di flanella pure bianca, come usano gl’inglesi e gli olandesi nelle loro colonie d’oltremare, e con in mano una lanterna cinese coi vetri di talco.

Era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura piuttosto alta, di forme eleganti ed insieme vigorose, dalla pelle un po’ abbronzata, cogli occhi nerissimi ed i capelli e la barba pure neri.

«Chi muore?» chiese in buon siamese.

«Il mio signore, Lakon-tay.»

«Il ministro dei S’hen-mheng ?» esclamò l’europeo con stupore.

«Si è avvelenato, signore.»

«Attendi un istante.»

L’europeo rientrò nella palazzina, in preda ad una visibile emozione, poi ne uscì di nuovo tenendo in mano una cassetta di legno laccato, contenente probabilmente degli antidoti.

«Presto, precedimi,» disse brevemente.

Attraversarono velocemente la via e salirono nell’abitazione del ministro, facendosi largo fra i servi, che gridavano e piangevano sulle scale, strappandosi le vesti e graffiandosi i volti.

«Ordina a questi uomini che stiano zitti,» disse l’europeo allo Stiengo. «Non è colle grida che si guarisce un moribondo.»

Preceduto da Feng, attraversò la veranda ed entrò nella stanza del ministro.

Len-Pra, cogli occhi pieni di lacrime, in preda ad una disperazione straziante, vegliava sola al capezzale di suo padre, sforzandosi, ma invano, di destarlo da quel sonno che a poco a poco lo traeva verso la morte.

Vedendo entrare l’europeo, gli si precipitò incontro, gridandogli con voce singhiozzante:

«Salvatelo, signore, e tutto il tesoro di mio padre sarà vostro.»

Il giovane si limitò a sorridere ed a scoprirsi il capo, figgendo i suoi occhi nerissimi in quelli della graziosa fanciulla. Poi s’avvicinò al letto e tastò il polso di Lakon-tay.

«Siamo in tempo,» disse. «La morte non sarebbe giunta prima d’un paio d’ore. Non temete, fanciulla, io lo salverò.»

«Fatelo, e tutto vi apparterrà, ed io vi sarò riconoscente finché avrò un soffio di vita.»

L’europeo per la seconda volta sorrise, dicendo a mezza voce:

«Mi basterà la riconoscenza della bella Len-Pra.»

S’avvicinò al tavolo, su cui stavano ancora la tazza e la palla d’oppio che Lakon-tay aveva tagliato quasi per metà.

«È parna ,» disse, «l’oppio migliore, ma anche il più pericoloso. Bah! Vinceremo la sua potenza mortale.»

Aperse la cassetta, ne estrasse una fiala contenente un liquido color del rubino e versò in una tazza alcune gocce, aggiungendovi poi dell’acqua. Il liquido spumeggiò per qualche istante spandendo un odore acuto, poi tornò limpido.

«Ciò basterà per salvare vostro padre, Len-Pra,» disse il giovane medico.

S’impadronì d’un coltello colla lama d’acciaio e il manico d’oro che aveva veduto su una mensola, s’appressò al letto, aperse a forza i denti del generale e gli versò in bocca la misteriosa miscela.

Tosto un fremito scosse il corpo di Lakon-tay, fremito che durò qualche minuto, e la respirazione, che poco prima era affannosa, divenne quasi subito regolare e tranquilla.

«Salvato?» chiese Len-Pra, alzando sull’europeo i suoi begli occhi bagnati di lacrime.

«Aspettate un quarto d’ora o venti minuti, e vostro padre aprirà gli occhi.

Ah! Quegli indiani hanno degli antidoti veramente meravigliosi, che gli Europei, con tutta la loro scienza, non hanno potuto ancora trovare. È stata una vera fortuna, Len-Pra, che abbiate pensato a me. Non so se un altro medico, e specialmente uno dei vostri, avrebbe potuto strappare vostro padre alla morte. La dose d’oppio era forte, ma…»

«Dite, signor dottore.»

«Quale dispiacere può aver spinto vostro padre, ministro potente ed invidiato, favorito del re, valoroso fra i valorosi, a cercare la morte?»

«Non lo so, signore. Era tornato questa sera assai turbato e triste.»

«Che sia morto l’ultimo S’hen-mheng ?» disse il medico. «Mi hanno detto che ieri mattina era assai ammalato e che alla corte regnava una profonda preoccupazione.»

«Il S’hen-mheng morto!» esclamò Len-Pra facendo un gesto di disperazione.

«Sì… morto…» mormorò una voce presso di lei.

Lakon-tay aveva aperto gli occhi e si era alzato, appoggiandosi sui gomiti.

Len-Pra gettò un grido di gioia.

«Ah! Padre mio!»

Il generale rimase immobile, cogli occhi dilatati, guardando ora la figlia ed ora lo straniero, certo stupito di trovarsi ancora vivo.

«Padre mio!» gridò nuovamente Len-Pra. «Non rimproverarmi d’averti strappato alla morte.»

La fronte del generale, che prima si era aggrottata, si rasserenava.

Gettò ambe le braccia al collo di Len e se la strinse al petto con un moto improvviso, dicendo:

«Perdonami, mia dolce Len, se io avevo cercato fra le braccia della morte di sottrarmi alla disgrazia che piomberà sulla nostra casa, ma al vecchio generale era mancato il coraggio di sfidare il disprezzo della corte e la collera del re.»

«Voi, il più prode guerriero del Siam!» esclamò l’europeo.

Lakon-tay guardò il medico, poi gli tese la mano, dicendo:

«Lo straniero nostro vicino. È a voi che debbo la vita, vero? Grazie per la mia Len, alla quale avete conservato il padre, che era risoluto a morire.»

«Sono ben lieto di avervi salvato, generale,» rispose l’europeo. «I valorosi come voi sono ben rari nel Siam.»

Un mesto sorriso sfiorò le labbra di Lakon-tay.

«Un dimenticato, ormai,» disse con voce triste, «e fors’anche un maledetto dai grandi e dal popolo, i quali mi accuseranno di essere stato io l’autore della morte dei S’hen-mheng , i protettori del regno.»

«Il quale regno potrà prosperare anche senza gli elefanti più o meno bianchi,» rispose l’europeo. «Credetelo, generale, sono vecchie superstizioni che un giorno spariranno anche dal Siam.»

«Forse avete ragione,» disse Lakon-tay, «ma nessuno potrà persuadere né i grandi né il popolo e nemmeno i talapoini.»

«Ecco un uomo moderno,» disse il dottore, sorridendo. «Per noi europei, perdonerete se parlo franco, gli elefanti, di qualunque colore siano, sono tutti animali né superiori né inferiori agli altri.»

«E voi, europei, ne sapete ben più di noi,» disse il generale.

«Condividete dunque la mia opinione?»

«Come uomo, sì, come siamese, no. Dovrei rinnegare la mia religione e le credenze dei miei avi.»

«E noi crediamo in Sommona Kodom,» mormorò Len-Pra.

«Avete veduto il re?» chiese l’europeo.

«Ieri sera, dopo la morte dell’ultimo S’hen-mheng

«Sapete, generale, che mi sembra per lo meno strana la morte di quei sette elefanti in così breve tempo?»

Lakon-tay fissò sull’europeo uno sguardo riconoscente.

«Anche voi sospettate che quella morte non sia naturale?» chiese.

«Sì, generale. Avete qualche nemico potente alla corte?»

«Tutti ne hanno: l’invidia ne fa sorgere dovunque.»

«Qualcuno che aspirasse al vostro posto?»

«Ve n’è più d’uno, ma io non credo che costoro abbiano osato sfidare l’ira di Sommona Kodom.»

«Comunque, un sospetto voi l’avete.»

«Sì,» rispose il generale.

«Frugate bene nella vostra memoria: quel nemico può venire a galla.»

«Ah!…»

«L’avete trovato?»

«Len-Pra,» disse il generale, «lasciaci soli. La confidenza che devo fare a questo europeo deve essere, per ora, ignorata da te.»

La fanciulla tese la sua piccola mano verso il medico, che gliela strinse sorridendo, e uscì, dicendo: «La mia riconoscenza, finché avrò un soffio di vita.»

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